Qualche giorno fa una bomba ha fatto venti vittime durante un funerale. Due giorni prima un attentato aveva ucciso bambini su un mezzo pubblico. Ieri, l'altro ieri o il mese scorso, in Pakistan i kamikaze saltano nelle moschee o disseminano di bombe i bazar. Così spesso, così ferocemente che le notizie finiscono tra le “brevi” o addirittura nel cestino. Cosa succede in Pakistan un Paese che è più in guerra dell'Afghanistan o forse anche della Libia?
La guerra non dichiarata che si svolge soprattutto nel Nordovest del Pakistan assomiglia, per ferocia, soltanto alle tattiche terroristiche dei narcos messicani. Più il governo sembra metterli alle strette, più loro diventano violenti. Sembra un parallelo forzato ma se è vero che un filo rosso collega la situazione in Afghanistan alla Colombia (dove in entrambi i casi il commercio degli stupefacenti ha “corrotto” la purezza ideologica dei fronti marxisti e talebani) l'efferatezza pachistana sembra avere qualcosa in comune con vicende analoghe che avvengono a migliaia di chilometri di distanza. Dove chi è messo alle strette reagisce con la violenza di chi si sente senza via d'uscitao.
Il Pakistan è un Paese difficile dal 1947 quando nacque da una costola dell'Impero britannico. La genesi fu violenta e il trasferimento da una frontiere all'altra (indù verso l'India, musulmani verso il Pakistan) fu uno degli episodi più cruenti della Storia dell'epoca. Questo parto violento ha continuato a riflettersi nelle vicenda che da anni insanguinano Karachi, il grande porto del Sud dove vivono i mohajir (letteralmente: migranti), la comunità di quanti lasciarono l'India nel '47 per trovare, nel nuovo Stato, un'integrazione difficile. Per i pathan della frontiera (l'equivalente pachistano per pashtun) non fu meno facile integrarsi nella nuova nazione: lo fecero con riluttanza e spesso reagendo violentemente perché si sentivano più afgani, nel senso lato del termine, che pachistani. Ma la guerra d'Afghanistan, iniziata con l'invasione sovietica trent'anni fa ha complicato le cose, gettando le aree tribali del Pakistan in un vortice di violenza, traffico d'armi e oppio, in una guerra con l'esercito di Islamabad resa più difficile dalle connivenze con l'islamismo radiali di parte dei servizi segreti e dell'esercito stesso. Basta ciò a spiegare efferatezza e violenza senza limiti? Non basta
Paolino Accolla, un giornalista italiano con lunghe frequentazioni in Asia, ha suggerito, in una conversazione che mi permetto di riportare, anche una terza via: la mancanza di lavoro.
La guerra afgana è stata per molti pachistani un'occasione: di orgoglio religioso ma anche di lavoro. E un'altra fabbrica era il Kashmir da liberare, fucina di guerriglieri di Dio, attentatori, kamikaze, addestratori. Ma adesso Islamabad, benché la pubblicistica descriva il Pakistan come la terra del diavolo, cerca di porre rimedio. Tenta di stemperare le tensioni con Delhi e di chiudere la partita afgana, seppur a modo suo. Agli estremisti questo non va. Ai manovali del terrore neppure. Che alzano il prezzo, migrando dove c'è più lavoro (nel Nordovest) ed essendo pronti a tutto. Forse non una sola spiegazione è sufficiente. Ma negli effetti delle guerre ci sono anche passi di pace che possono trasformarsi in nuove occasioni di guerra
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