La morte, scampata in trent’anni
di battaglie, lo ha colto di sorpresa
nella sua casa nell’elitario
quartiere di Wazir Akbar Khan
dove stava incontrando due “talebani”.
Burhanuddin Rabbani
è stato ucciso - con molti altri -
da un’esplosione deflagrata nella
sua abitazione dove si era introdotto
un kamikaze.
Un colpaccio che uccide, con
lui, non solo l’uomo a capo
dell’Alto consiglio di pace, voluto
da Karzai per mettere in
piedi il processo di pacificazione
nazionale, ma uno dei grandi
vecchi della politica e della
guerra afgana. Un vero
“signore della guerra”:
a capo dell’opposizione
a Karzai tanto
abile da condizionarne
le scelte; già presidente
dell’Afghanistan
all’epoca dei mujaheddin
dopo l’occupazione
sovietica;
fondatore della Jamiat-e-islami,
la più antica e forte organizzazione
islamista; mente e compagno
di Ahmad Shah Massud,
l’uomo che Al Qaeda - o i talebani
- uccisero alla vigilia dell’11
settembre.
Chiedersi chi l’ha ucciso
non avrà una risposta semplice. Il vecchio aveva molti nemici.
Non solo tra i talebani coi
quali cercava – difficile dire come
poiché era da sempre uno
dei loro più acerrimi oppositori
– un difficile dialogo a capo
di un’istituzione bollata come
un cartello di warlord fedeli
a Karzai: uomini più di guerra
che di pace. Esiliato nel Nordest
dall’arrivo dei talebani nel 1996,
conserverà formalmente il titolo
di presidente dell’Afghanistan,
almeno per la Comunità internazionale,
sino al 2001 quando,
tornato a Kabul dopo i talebani,
rimodella il suo personaggio.
Islamista della prima ora, barba
ben curata sull’elegante chapan,
si era riciclato con facilità. Non
solo per le sue conoscenze e alleanze
ma anche grazie all’amicizia
con Massud.
Difficile dire chi lo sostituirà
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