Washington fa marcia indietro: “Nessun incontro in agenda coi talebani”. Italia e Germania confermano: resteramo anche dopo il 2014
Il giorno dopo l'affaire dell'ufficio politico dei talebani a Doha e dell'imminente negoziato tra turbanti e americani è il giorno delle smentite e delle marce indietro. Ma, sul fronte della permanenza delle truppe della Nato, è anche il giorno della marcia avanti. Per Italia e Germania.
I due ministri della Difesa, Mario Mauro e Thomas de Maizière, spiegano in una conferenza stampa congiunta a Herat che entrambi i Paesi resteranno anche dopo il 2014. A fianco c'è il generale Bismillah Mohammadi, loro omologo afgano. I due ministri chiariscono quanto già sappiamo (non forze “combat” ma solo di sostegno e training), numeri però non ne fanno e restano sul vago anche sulla permanenza. Mauro fa sapere che la visita a Herat ha l'intento di assumere informazioni per il necessario vaglio del Parlamento italiano e nel suo discorso rivendica i successi della presenza occidentale citando otto milioni di bambini a scuola. Entrambi sottolineano i paletti di una Costituzione che salvaguarda diritti umani e di genere e in tal modo sembrano voler, unica voce europea, entrare nel merito della disputa con relativo polverone alzato dagli Stati uniti nei giorni scorsi a proposito dell'ufficio talebano a Doha. Ma sul punto evitano polemiche, nella scia consolidata che gli alleati non si criticano nemmeno quando fanno sbagli colossali.
Lo sbaglio colossale è degli Stati uniti ed è quello di aver pompato – forse per un calcolo tattico propagandistico - l'indiscrezione secondo cui già da ieri americani e talebani avrebbero inaugurato il nuovo ufficio di mullah Omar a Doha con negoziati bilaterali, in barba a Kabul. La pronta reazione di Karzai - sdegnato dall'ennesima scelta che lo mette all'angolo e indignato perché quell'“ufficio” improvvisamente è diventato un'ambasciata dell'Emirato islamico d'Afghanistan con tanto di bandiera coranica - provoca la marcia indietro. La prima è telefonica. Nel cuore della notte e poi ancora ieri mattina: Kerry da una parte, dall'altra Karzai. Nella telefonata il capo della diplomazia statunitense fa mille scuse al presidente mentre a Doha la bandiera talebana viene ammainata e gli sceriffi dell'emiro del Qatar fanno sparire la pomposa placca che annuncia la sede dell'Emirato, foriera di tanto disastro politico-diplomatico. Di più. Lo stesso Obama chiarisce che «vogliamo vedere parlare afgani con afgani» mentre i i famosi colloqui bilaterali imminenti diventano una variabile nebulosa e per ora senza alcuna data in agenda. Si vedrà.
La marcia indietro è tanto evidente quanto imbarazzante. Lo è per Washington e lo è per Bruxelles. La vince Karzai un'altra volta tanto che nessuno prende in seria considerazione quanto il portavoce talebano Mohammad Naeem dice all'emittente russa Rfe/Rl: «Vogliamo un governo che comprenda tutti gli afgani. Dovrà essere un governo a cui possano partecipare tutti i rappresentanti del nostro popolo, che dia la speranza agli afgani di essere un governo di tutti». Apertura (condizionata comunque al ritiro delle truppe) altrimenti degna di nota ma che finisce per passare quasi inosservata.
Non passa invece inosservata, specie sui media afgani, la posizione di Cina e India, veri supporter del presidente afgano, tre giorni fa delegittimato, seppur indirettamente, dall'improvvida accelerazione di Washington. I due colossi asiatici esprimono solidarietà a Karzai e Pechino chiarisce: «La comunità internazionale deve garantire assistenza al processo di pace sulla base del rispetto dell'indipendenza del Paese». Il colmo: prendere lezioni di democrazia rappresentativa e di galateo diplomatico proprio dalla Cina.
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