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martedì 30 settembre 2014

Gli europei e la guerra (in)finita

Immaginandoci, con un po' di fantasia, una possibile breve conversazione tra i muri della diplomazia europea il tono potrebbe essere stato questo: «Vai a Kabul per l'insediamento di Ghani»? «No, ho da fare: ora c'è il califfato di Al-Baghdadi: Guerra al terrorismo 2, la vendetta. L'Afghanistan ormai è un caso chiuso». In effetti a scorrere la lista delle personalità presenti alla prima transizione di potere nella Kabul post-talebana il parterre è davvero sconsolante: gli americani non sono mancati con una delegazione di tutto rispetto di dieci funzionari capeggiati dal consigliere di Obama John Podesta mentre il Pakistan ha inviato addirittura il suo presidente Mamnoon Hussain e l'India e l'Iran i vice presidenti Hamid Ansari e Mohammad Shariatmadari. Anche i cinesi hanno mandato una figura di profilo nel ministro Yin Weimin. Ma sul fronte occidentale solo sedie semivuote su cui, a rappresentare l'Europa, c'erano solo gli ambasciatori di stanza a Kabul, Gan Bretagna compresa. Al massimo gli inviati speciali. E' la guerra, bellezza, quella nuova sulle frontiere di Siria e Irak.

Abdullah  Abdullah(a sinistra) e Ashraf Ghani:
 da ieri premier e presidente in un governo
 bicefalo  frutto  di un accordo per far contenti tutti
Se la forma, specie in diplomazia, è sostanza, la scelta la dice lunga sul futuro dell'Afghanistan retto da Ashraf Ghani, l'uomo che, con Abdullah, i talebani hanno catalogato come un “impiegato” degli Stati uniti. Sono loro gli sponsor del papocchio istituzionale col quale nasce la stella del primo ministro facente funzioni in una repubblica che è presidenziale per Costituzione e dove nemmeno l'ombra di un passaggio parlamentare ha giustificato la bizzarra alchimia. Alchimia che per l'uomo della strada è l'ennesima trattativa sottobanco da cui i più maligni non hanno escluso che, oltre al potere, sia stato garantito qualche altro compenso all'eterno secondo (Abdullah fu sconfitto a suon di brogli anche da Karzai nel 2009). Malizie. Non resta del resto che far buon viso a cattivo gioco, di qua e di là dalle montagne dell'Hindukush: l'esperimento democratico, pompato come la grande conquista dell'era post talebana, è un misero accordo di potere degno di una trattativa da bazar mentre la guerriglia, data per sconfitta già nel 2001, ha segnato quest'anno il più alto numero di vittime dall'inizio della guerra che doveva consegnare alla Nato sullo scacchiere planetario il ruolo che fu delle Nazioni unite, sempre più solo spettatore. Bisogna accontentarsi.


Adesso comunque (oggi per la precisione) si potrà firmare l'accordo tra Kabul e Washington che garantisce impunità ai soldati stellestrisce e l'uso di dieci basi militari tra cui l'enorme hangar di Bagram. Accordo che aprirà la strada a una nuova missione Nato ma, soprattutto, alla riapertura dei rubinetti finanziari che servono a pagare gli stipendi a funzionari e soldati prima che – come accadde dopo la dipartita dell'Urss – l'esercito diserti in massa e la guerriglia, confinata nelle periferie, possa attaccare le città, unico porto sicuro nell'incertezza di un Paese dove il controllo amministrative e militare è una rete piena di buchi.

Questo disinteresse pericoloso, che vede come unico attore gli americani e i vicini e un impegno a finanziare soprattutto la macchina militare, non è di buon auspicio. Continuamente distratta da nuovi fronti di guerra, l'Europa sembra ignorare l'unica lezione che l'Afghanistan dovrebbe averle insegnato: seguire a ruota gli americani non fa bene né a noi né a loro né ai Paesi sotto tutela. Senza lavorare sulle cause dei conflitti, senza un investimento nella ricostruzione civile, senza un'alleanza politica con i gradi attori regionali (tra cui l'Iran perennemente ignorato) l'Afghanistan corre il rischio di essere l'ennesimo Stato fallito. Pronto magari per una riedizione del califfato in chiave Asia centrale.



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