Ashraf Ghani, primo con riserva |
Difficile dire quanto il cittadino comune
abbia digerito una formula che,
nelle parole di molti analisti e
politologi afgani, ha il sapore di una sconfitta del processo
elettorale e dunque della democrazia afgana. Per dirla con la storica
Helena
Malikyar: «Un
giorno dolce amaro per gli afgani. L'economia arranca – ha detto
all'emittente del Qatar Al Jazeera nel giorno della proclamazione di
Ghani a presidente - gli aiuti internazionali sono congelati, lo
sviluppo si è fermato e la criminalità ha fatto passi da gigante».
Effetto dell'impasse, risoltasi con quello che il politologo e
ricercatore Nader Nadery ha definito un buon giorno per gli afgani ma
una pessima notizia per la democrazia afgana. Conviene in effetti
ascoltare le voci afgane più che quelle (poche) dei commentatori
occidentali che tendono a vedere il bicchiere mezzo pieno. Gli afgani
al contrario, anche perché vittime di una crisi politica con effetti
perversi sull'economia reale (i prezzi di terra e immobili ad esempio
sono crollati durante il trimestre di stallo), vedono il bicchiere
mezzo vuoto, nell'imminenza della dipartita a fine anno della
stragrande maggioranze delle truppe Nato che già ha fatto sentire i
suoi effetti nella riduzione delle commesse e dei servizi che hanno
visto un tracollo generale da quando è iniziato in maniera
consistente il ritorno a casa scaglionato degli oltre centomila
soldati dell'Alleanza, clienti di un indotto che ha fatto della
guerra anche un grosso affari per molte società nazionali*.
Abdullah Abdullah, eterno secondo |
L'accordo
con gli Usa
La
sensazione è dunque che le cose si sono aggiustate “all'afgana”,
che il governo c'è ma ha un'intrinseca fragilità, che si è
comunque perso tempo. Il governo Ghani, in queste ore impegnato a
definire il suo profilo, ha comunque per prima cosa siglato l'accordo
di partenariato strategico con gli Stati Uniti (Bsa, Bilateral
Security Agreement) che di fatto garantisce a Washington il controllo
di una decina di basi militari e che permetterà al Pentagono la
dislocazione di almeno diecimila soldati in grado di intervenire e
non solo di fare formazione, come invece dovrebbe prevedere il
prossimo nuovo accordo con l'Alleanza atlantica. E che, soprattutto,
garantisce lo sblocco dei finanziamenti congelati e la garanzia che,
nei prossimi mesi, si potranno pagare gli stipendi a funzionari
pubblici e soldati, condizione sine
qua non per
garantire governance e sicurezza. Se infatti il flusso di denaro
promesso alle conferenze di Bonn (2011) e Tokio (2012) continuerà a
fluire nelle casse del governo afgano (che per il 90% del Pil dipende
dall'aiuto esterno), la nuova macchina statale potrà andare a regime
ed esercito e polizia nazionali (una forza complessiva di oltre
300mila uomini) potranno tenere a bada i talebani come la lezione
della Storia dovrebbe insegnare (nel 1989 l'Urss lasciò
l'Afghanistan nelle mani del governo Najibullah che tenne testa ai
mujahedin per tre anni ma quando Mosca taglio i fondi, l'esercito
nazionale senza stipendio si sciolse come neve al sole e la
guerriglia conquistò Kabul).
I
temi sul tavolo
Il
futuro dunque è piuttosto incerto a cominciare dai dati
dell'economia. Il primo atto ufficiale del nuovo presidente è stato
infatti la nomina del consigliere speciale per questo settore dell'ex
ministro delle Finanze Hazrat Omar, che rimarrà in carica con un
interim al dicastero da cui proviene proprio per evitare un vacuum
pericoloso. Il secondo problema non meno importante è la sicurezza,
motivo per cui Ghani ha affidato all'ex ministro dell'Interno
Mohammad Hanif Atmar il ruolo di consigliere speciale al posto di
Daftar Spanta (è stato proprio Atmar a firmare martedì scorso 30
settembre, appena un giorno dopo l'insediamento di Ghani, il Bsa con
gli Usa). I ministri si conosceranno probabilmente nel giro di pochi
giorni. E se l'economia è il grosso rovello ma è comunque materia
che ben nota a Ghani (già alla Banca mondiale come funzionario),
sicurezza significa anche piano di pace coi talebani e garanzie dagli
Stati confinari, i principali attori nelle vicende afgane non
estranei alla vitalità della guerriglia. E qui cominciano gli
ostacoli veri. Per quanto ridotto, l'apporto finanziario della
comunità internazionale dovrebbe essere abbastanza garantito nel
breve periodo dagli impegni presi nelle ultime grandi conferenze
sull'Afghanistan, ma processo di pace e rapporto coi vicini sono
invece due nebulose tutte da chiarire.
Talebani
e processo di pace
La
guerriglia in turbante per adesso ha chiuso tute le porte. Sul sito
ufficiale dell'emirato islamico sono uscite due note politiche molto
dure contro l'elezione di Ghani e la nomina di Abdullah, definiti due
“impiegati” degli Stati Uniti. Il giorno della firma del Bsa, con
una celerità rara per gli standard mediatici della cupola di Quetta,
i comunicatori di mullah Omar hanno bollato la firma dell'accordo
come un atto di servilismo e una svendita della sovranità nazionale.
Sul processo di pace nemmeno una parola e al momento non sembra che
Ghani possa contare su qualche cavallo particolare o su qualche carta
nascosta. Infine Abdullah Abdullah (era il medico personale di Shah
Massud, ucciso alla vigilia dell'attacco alle Torri gemelle nel 2001)
è un nemico giurato dei talebani senza contare che rappresenta gli
interessi della minoranza tagica. Non è escluso che Ghani, un pashtu
della tribù Ahmadzai (come Najibullah!), possa ricorrere
all'esperienza di Karzai, uscito di scena dalla porta principale ma
pronto a rientrare dalla finestra.
I
rapporti coi vicini
Per
ora restano tesi: la firma del Bsa ha sollevato le ire di pachistani
e iraniani. Il vice ministro persiano Ebrahim Rahimpour l'ha bollata
come un danno al governo afgano e alla sua sovranità. L'ex
ambasciatore di Islamabad a Kabul, Rustam Shah Mumand, ha invece
detto che fino a quando le truppe straniere resteranno nel Paese, i
rapporti tra l'Afghanistan e il Pakistan non miglioreranno. Reazioni
abbastanza scontate ma che danno conto di un clima assai poco disteso
con i due Paesi chiave che circondano Kabul che può sì contare in
Asia sull'appoggio di India e Turchia, su quello indiretto di Mosca e
sull'interesse della Cina, ma che non può non tener conto di quanto
accade a Islamabad e a Teheran: il Pakistan è in grado (più o meno)
di controllare i santuari oltre confine dei talebani. L'Iran – che
ha scelto di appoggiare una parte del movimento guerrigliero –
tiene l'Afghanistan come possibile pedina da giocare proprio in
chiave anti americana.
Le
premesse per un mandato davvero difficile sono l'unica certezza che
Ashraf Ghani ha tra le mani.
*
41mila
in totale al 3 settembre 2014
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