Riflessioni
a margine di 14 anni vissuti pericolosamente. Cosa si chiude con la
fine del 2014, cosa si apre con l'avvento del 2015
Lunedi
12 gennaio, il neo presidente Ashraf Ghani ha finalmente annunciato
la lista dei ministri del suo governo. Le nomine hanno ricevuto una
reazione comprensibilmente tiepida visto che, l'impasse politico
generato dalla condivisione dei poteri tra Ghani e Abdullah Abdullah
(l'altro sfidante per la presidenza che, avendola persa, ha preteso
una condivisione dei poteri e un ruolo da premier) aveva ormai
superato i “cento giorni” del nuovo corso entro i quali il
presidente avrebbe dovuto sia nominare la squadra, sia mostrare i
primi risultati del suo programma. In base al nuovo “Cencelli” di
Kabul, dei 25 ministri in carica, 13 li ha scelti Ghani (tra cui
Difesa e Finanze) e 12 li ha scelti Abdullah. Sono questi ultimi,
dicasteri di peso (Esteri, Interno, Economia, Sanità, Istruzione), a
dimostrazione che il braccio di ferro tra i due ha finito per
premiare quasi più il premier che il presidente. Va detto però che
i portafogli più importanti (compresa la nomina del governatore
della banca centrale) sono saldamente nelle mani di Ghani e chi
controlla la cassa controlla tutto, specialmente in un periodo in cui
il sostegno estero andrà scemando. I primi problemi comunque sono
già arrivati: il
parlamento ha contestato la previsione di budget, ossia la
finanziaria del governo (alla fine approvata a fine gennaio) e ha
bocciato alcuni ministri o chiesto la verifica sul rispetto delle
condizioni poste dai regolamenti parlamentari per adire agli scranni:
potrebbe trattarsi solod i questioni di potere ma essere anche la
dimostrazione di una certa vitalità del parlamento afgano.
Al
momento della sua contestazione, la previsione di bilancio diceva che
Kabul dovrebbe incassare, tra tasse e dazi, 125 miliardi di afghanis
mentre altri 275 miliardi dovrebbero arrivare dall'aiuto
internazionale (in totale 8 mld di dollari). I media locali hanno
fatto notare che l'anno scorso il governo si era prefissato un
incasso di 133 miliardi ma ne aveva ottenuti solo 100. E la borsa
degli aiuti stranieri si fa sempre più stretta, tanto che potrebbe
strangolare la fragile economia locale. Se la stagione politica si
presenta dunque densa di nubi, quella economica non ha cieli meno
sgombri: è incorniciata in un
futuro incerto, gravato da interrogativi sulla generosità dei
donatori che la Conferenza internazionale di Londra del dicembre
scorso ha solo in parte fugato pur reiterando l'impegno a non
abbandonare l'Afghanistan.
Che
l'economia locale vada male – in un mercato del lavoro su cui si
affacciano ogni anno 400mila nuovi soggetti in cerca di occupazione -
lo si evince facilmente dalla caduta libera dei prezzi sul mercato
immobiliare, dove la vendita di case e terreni ha subito
deprezzamenti anche del 50%, a fronte di una stagnazione nella quale
le transazioni si sono fermate. Inoltre, anche grazie alla sua corsa
mondiale al rialzo, il dollaro si è apprezzato di diversi punti
percentuali sull'afghanis, divisa che invece in questi anni è stata
molto stabile (un deprezzamento della moneta locale potrebbe però
favorire le esportazioni depresse dalla sua eccessiva stabilità).
Con la fine della presenza massiccia della Nato anche le commesse
legate alla guerra stanno calando vertiginosamente o orientando il
governo a servirsi da produttori esteri che offrono merci a costo
minore. L'economia sostenuta virtualmente da una sorta di clausola di
privilegio verso i produttori nazionali viene meno proprio mentre il
futuro degli stipendi a militari e funzionari pubblici si va
riempiendo di ritardi nei pagamenti e di incognite sulla tenuta dei
salari e dell'occupazione
Secondo
un rapporto dello Special
Inspector General for Afghanistan Reconstruction
(Sigar, l'agenzia pubblica americana che fa le pulci ai conti per la
ricostruzione), Kabul non avrebbe infatti abbastanza liquidità per
pagare in futuro i suoi soldati, specie quando, nel 2024, i sussidi
esterni per la Difesa dovrebbero terminare. Secondo Sigar le forze
armate (Ansf) sono una delle aree a maggior rischio:
esercito (Ana) e polizia (Anp) sono al momento composti da 352mila
uomini, un numero che la Nato ha proposto di ridurre a 228.500 entro
il 2017 proprio per renderlo sostenibile. Ma anche in quel caso Kabul
potrebbe non farcela. Questa forza – per quanto ridotta – viene
infatti a pesare per 4,1 miliardi di dollari l'anno, cifra a cui
Kabul dovrebbe contribuire con 500 milioni fino dall'anno prossimo e
che, teoricamente, dal 2024 dovrebbe pagare da sola. Ma poiché nel
2013 il governo è riuscito a incassare da tasse e dazi meno della
metà dell'intero budget statale (5,4 mld di dollari) il conto è
presto fatto. Kabul immagina di riservare alla spesa per le forze
di sicurezza il 3% del budget sperando che il suo Pil cresca e, con
lui, anche questa percentuale. Ma se adesso a ripianare i conti ci
pensa la comunità internazionale e non è difficile immaginare che a
fondi d'aiuto sempre più ridotti, Kabul si ritroverà ad avere
sempre meno liquidità per i salari di soldati e poliziotti. Sempre
che non li sottragga alla spesa per i servizi o dai salari degli
impiegati statali.
Se
sarà dunque complesso in futuro mantenere un esercito efficiente,
pagare il
salario ai funzionari pubblici per garantire governance e
servizi specie in presenza di un costo esorbitante del comparto
militare, l'unica via d'uscita logica e pragmatica resta quella di
por fine velocemente al conflitto coi talebani. Ma per quel che
riguarda il processo di pace (sinora una chimera) le difficoltà sono
di doppia natura: da una parte il governo non sembra fare grandi
passi avanti (se non con annunci roboanti per alcuni militanti e
comandanti guerriglieri che depongono le armi) anche se è difficile
dire se esistano o meno negoziati segreti con la guerriglia (o una
parte di essa). Dall'altra, la domanda è: quale guerriglia? Il
fronte del nemico si presenta infatti estremamente frammentato e,
secondo alcuni, addirittura con una aperta crisi di leadership
oltreché di visione e di strategia. I talebani afgani non sono
jihadisti nel senso che Al Qaeda (o lo Stato islamico, la cui
presenza in Afghanistan è stata tra l'altro appena segnalata) danno
a questo concetto (internazionalizzazione del jihad) ma semmai
nazionalisti religiosi. Non tutti però la pensano così: alcune
frange, benché minoritarie, sono jihadiste e qaediste (è il caso
della Rete Haqqani, in ottime relazioni con i “cugini” pachistani
del Tehrek-e-Taleban Pakistan/Ttp).
Nella foto di Pajhwok, Ghani a sn e Abdullah |
Il
recente attacco alla scuola di Peshawar a dicembre in Pakistan (oltre 140 morti
assassinati proprio da una fazione del Ttp) ha dimostrato come il
fronte guerrigliero sia diviso da logiche, tattiche e strategie molto
differenti: non solo il sito ufficiale dei talebani afgani (che
farebbe capo alla cosiddetta shura di Quetta e dunque a mullah Omar,
benché se ne metta in dubbio l'esistenza in vita) ha condannato
l'azione prendendone le distanze, ma la stessa posizione ha preso
rispetto all'azione kamikaze che, precedentemente, aveva ucciso –
in Afghanistan – oltre 40 spettatori di una partita di pallavolo
(azione forse attribuibile agli Haqqani). La distanza tra talebani
afgani e pachistani è nota, ma sembra emergere sempre di più una
frattura interna alla guerriglia afgana che finora ha sempre cercato
di mostrare un volto unitario. Questo aspetto la rende più fragile
ma rende anche più difficile la trattativa.
Il
recente tentativo, soprattutto pachistano, di distendere i rapporti
tra i due Paesi indica però un nuovo positivo elemento. Kabul ha
sempre accusato Islamabad di aver chiuso entrambi gli occhi sui
santuari che, nel Paese dei puri, ospitano i guerriglieri afgani
(shura di Quetta e di Peshawar, Rete Haqqani) ma da qualche tempo è
Kabul a chiudere gli occhi sui santuari dei talebani pachistani in
territorio afgano. Solo la collaborazione tra i due governi – e
non l'uso strumentale dei diversi fronti guerriglieri – può
mettere fine a un fenomeno che danneggia entrambi. Una dimostrazione
tangibile di questa svolta è stata la recentissima messa al bando in
Pakistan della Rete Haqqani (valido aiuto per il Ttp e nemico numero
1 in Afghanistan) e di altre nove organizzazioni estremiste e
terroriste. Se il buongiorno si vede dal mattino, questa è forse la
notizia più rilevante del nuovo anno anche se pagata al carissimo
prezzo di oltre 140 vite di giovani studenti.
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