Una
guerra, poco importa se civile o dichiarata o – come nel caso
afgano o iracheno – addirittura considerata “conclusa”, è
sempre un ottimo serbatoio per combatterne un'altra. E' storia sin
dai tempi dei mercenari reclutati per soldo o competenze, ma
recentemente questo fenomeno ha preso un nuovo abbrivio. Forse da
quando, durante la guerra di Bosnia, si creò una brigata di
mujaheddin, sostenuti dai Paesi del Golfo e dall'Iran ma anche
dall'Occidente: molti di loro rimasero in piccole enclave radicali in
territorio bosniaco oppure trasmigrarono verso nuove frontiere che
potevano garantire loro un salario e la continuazione del jihad su
altri fronti. Questa storia poco indagata sulle motivazioni
(ideologiche, finanziarie, religiose o per senso di giustizia) e che
ha contagiato anche i musulmani di seconda generazione “integrati”
nelle nostre società, si spalma lungo lontanissimi confini. E
proprio l'Afghanistan, col vicino Pakistan, è un affluente primario
di quel fiume jihadista che alimenta i conflitti più recenti e che
sembra ormai coinvolgere tutto il mondo, dall'Australia
all'Azerbaijan.
Il
fronte è vario e non certo univoco. E' di alcuni giorni fa la
notizia di combattenti afgani che il regime di Bashar al Assad
avrebbe arruolato tramite i buoni auspici di Teheran. Secondo il
londinese Syrian
Observatory for Human Rights,
sarebbero i Guardiani della rivoluzione a reclutare per 500 dollari
al mese gli afgani in Iran, dove la diaspora musulmana sciita (in
prevalenza hazara) è molto presente. Reclutamento esercitato con la
coercizione e che avrebbe già prodotto centinaia di morti, feriti o
sequestrati tra questi combattenti in prestito forzato. Non è
l'unico caso in cui uno straniero, più o meno convinto o attratto
dal denaro, decida di combattere al fianco di Assad. Secondo fonti
locali dell'Azerbaigian (Paese a maggioranza sciita), alcuni giovani
sono stati assoldati da Damasco per combattere i jihadisti sunniti,
la stragrande maggioranza dei miliziani delle brigate
islamico-radicali sparse per il mondo, dal Pakistan alla Siria. E
benché in Azerbaijan non esista un vero e proprio pericolo
jihadista, il Paese è un caso studio interessante dove il
conflitto afgano e nel Caucaso sono stati i motori di un revivalismo
radicale che sembra aver aiutato la diffusione di movimenti salafiti
e wahabiti e l'attrazione per le brigate internazionali.
Il
fenomeno è recente ma non si deve dimenticare l'enorme forza che il
jihad afgano durante l'occupazione sovietica (1979-1989) ha
esercitato su tutti i musulmani del mondo sovietico dove spesso la
presenza russa era vissuta come un'occupazione. I primi combattenti
azeri partiranno dunque per Cecenia e Daghestan
prima e poi per Afghanistan
e Pakistan dove vi sono diversi poli di attrazione: non solo e non
tanto i talebani di mullah Omar, poco sedotti dall'internazionalismo
qaedista e salafita, ma movimenti jihadisti come il
Tehreek-e-taleban Pakistan (Ttp) autore della recente strage nella
scuola militare di Peshawar (141 morti).
E'
il secondo jihad – quello contro Usa e Nato – ad attrarre tutta
una nuova leva di mujaheddin le cui coscienze si sono risvegliate con
le guerre nel Caucaso, i disordini in vari Paesi dell'ex Urss, le
primavere arabe e l'11 settembre. In Pakistan c'è ad esempio
Taifatul
Mansura,
formazione militante di mujaheddin turcofoni (turchi, azeri, kazachi,
uzbechi, tatari),
attiva sul confine afgano pachistano. In Siria c'è invece la
Muhajireen
Brigade,
evolutasi in Jaish
al-Muhajireen wal Ansar,
gruppo di “stranieri” in gran parte russi e ceceni ma anche
occidentali,
oppure
la più nota Jabhat
al-Nusra
e adesso formazioni che fanno capo al progetto di Al Baghdadi.
Proprio i suoi uomini – secondo un rapporto delle autorità del
Belucistan pachistano – avrebbero in essere una potente campagna di
reclutamento: fra i 10 e i 12mila uomini da arruolare nelle aree
tribali del Pakistan per farli poi trasmigrare sul fronte siro
iracheno.
Cosa
muove questi combattenti? Ci sono ormai jihadisti di professione:
gente senza più patria e ricercata nel Paese d'origine che ha ormai
come specializzazione la guerra. Poi c'è l'attrazione di uno
stipendio che può variare da qualche centinaio di dollari a mille.
Ma c'è anche una forte motivazione ideologica, probabilmente legata
al desiderio di uscire dall'impasse di una vita ai margini come
quella che può vivere un giovane senza futuro della periferia di
qualche capitale asiatica o occidentale. Luoghi dove il jihad
internazionale esercita la sua pressione su musulmani di seconda
generazione che le società occidentali non hanno saputo o voluto
integrare e che vedono come una sconfitta l'adesione supina dei
genitori a valori in cui questi giovani non si riconoscono.
In
Azerbaigian c'è una città, oggi considerata il nodo per eccellenza
delle attività jihadiste - con oltre 200 residenti sotto
osservazione come possibile manodopera radicale – il cui passato e
presente spiega molte cose. A Sumqayit, costruita alla fine degli
anni Quaranta e ormai ex polo di attrazione siderurgico e
petrolchimico, il processo di riconversione industriale post Urss ha
coinciso con violenze e pogrom che ne hanno modificato il tessuto
sociale: mentre la parte armena della città si svuotava, l'area
urbana si riempiva di sfollati azeri provenienti dall'Armenia. Nella
città, classificata nel 2007 come una delle più inquinate del
mondo, il processo di riconversione, le tensioni create dalla
disoccupazione e dalla presenza di un milione di sfollati, appaiono
come l'humus ideale per il reclutamento di giovani in cerca di
occupazione o di un ideale eroico. La guerra è finisce per essere il
grande mercato in grado di attrarli.
Nessun commento:
Posta un commento