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venerdì 15 gennaio 2016

Giacarta, nuovi progetti e vecchie nostalgie

Può rassicurarci, oltreché allarmarci, sostenere che Giacarta è come Parigi e Istanbul. Che Daesh ha un progetto globale e che il Paese delle 13mila isole è il tassello più gustoso del Califfato allargato. Ma la targa Stato islamico sull'attentato di Jakarta non deve farci dimenticare di che Paese parliamo. Ogni nazione ha una storia nella quale il jihadismo, al netto dell'imperscrutabile richiamo che esercita sopratutto su alcuni giovani musulmani, può giocare un ruolo eterodiretto. E non solo da Raqqa.

L'Indonesia, fino ad allora sopratutto meta turistica e, per i più edotti l'ex regno di una dittatura ultratrentennale, fece parlare di sé nel 2002 con la bomba di Bali. Duecentodue morti in maggioranza stranieri quando ancora colpire i turisti era una novità. Le indagini, indirizzate sulla Jemaah Islamiyah e sul controverso guru islamico Abu Bakar Bashir, rivelarono piste che puzzavano di bruciato. Alcune infatti portavano più in là del jihadismo locale, tutto sommato un fenomeno – oggi come allora – residuale. Portavano a figure oscure che si muovevano tra la potente malavita indonesiana, ricchi businessman, settori dell'esercito, l'unico soggetto in grado di possedere esplosivi e che vantava una lunga storia di infiltrazioni nei movimenti islamisti e settari perché servissero a scatenare il caos: prima in funzione anti comunista, poi – dopo il golpe del 1965 e con l'avvento di Suharto – per controllare possibili ribelli. Poi ancora - nella nuova e fragile stagione di una neonata democrazia – per poter di nuovo servirsi del caos e instillare l'idea che un ritorno della vecchia guardia al potere fosse la panacea: ordine, la stessa parola che aveva segnato la stagione del dittatore che l'aveva appunto chiamata Orde Baru, ordine nuovo.

Dunque malavita, potentati economici legati al crony capitalism della famiglia Suharto, pezzi dei servizi militari deviati e riconducibili al periodo della dittatura. Questa società nascosta e segreta aveva e ha in odio la nuova stagione democratica. Se n'è fatta in parte una ragione ma rimpiange la belle epoque della dittatura. Legami diretti tra la stagione stragista iniziata nel 2002 (e ripetutasi sino al 2009 con le bombe negli alberghi e poi ancora, solo qualche tempo fa, con un'esplosione davanti alla casa del sindaco di Bandung) non son mai stati dimostrati ma a tratti i nomi di qualche businessman o di qualche agente o di qualche militare saltava fuori. Poi – complice una magistratura molto morbida – le sigle Al Qaeda e Jemaah Islamiyah coprivano tutto.

Joko Widodo
Se dietro ai fatti di ieri ci sia qualche burattinaio locale è presto per dirlo ma nel conto bisogna metterci anche questa ipotesi se non si vuole che il brand Daesh serva a insabbiare possibili piste dove si muovono i protagonisti di un'epoca che ancora non è passata. Anzi, proprio il nuovo segno della politica indonesiana, incarnata dall'outsider Joko Widodo, deve mettere in guardia. Quando si presentò alle presidenziali del 2014 sfidò nientemeno che un genero di Suharto, primo marito di Titiek, la più giovane delle figlie dell'ex dittatore ormai defunto. A Prabowo Subianto, ex generale e uomo d'affari, guardava proprio il vecchio mondo del crony capitalism e dei nostalgici della dittatura. Jokowi vinse. Ma quelle forze oscure che rimpiangono il passato sono tutt'altro che sconfitte: prova ne sia che a distanza ormai di cinquantanni è ancora vietato discutere del golpe del 1965 e delle stragi che ne seguirono. E' in quell'oscura trama di interessi che Daesh o chi per lui può trovare alleati. Ancor prima che tra qualche giovane dei sobborghi di Jakarta o di Bandung abbagliato dall'utopia jihadista di Al Bagdadi.

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