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venerdì 25 marzo 2016

La fine del Tibet nel 1959 (wikiradio)

Bandiera tibetana utilizzata dall'esilio
Nel marzo del 2008 è tutto pronto. A Lhasa, capitale del Tibet, nei piccoli
villaggi sparsi sul Tetto del Mondo, in Nepal dove vivono migliaia di esuli tibetani e a Dharamsala, la città dell'India settentrionale dove, dal 1959, vive il Dalai Lama e ha sede il governo tibetano in esilio. Nel marzo del 2008, tutto è pronto proprio per ricordare quel 1959 che ha segnato la fine dell'indipendenza tibetana. Tutto è pronto per ricordare il dramma di chi si è opposto all'occupazione militare della Cina che ha occupato la regione nel 1950 e che, nel giro di due settimane, chiuderà definitivamente il caso Tibet, sciogliendone il governo e assumendo il totale controllo di quella che ormai si appresta a diventare Cina a tutti gli effetti. Il suo territorio viene frazionato dai cinesi tra le province del Qinghai, del Gansu, del Sichuan e dello Yunnan mentre ciò che resta diventa nel 1964 la Regione Autonoma del Tibet, una provincia della Cina a statuto speciale. Nel 2008 però c'è ancora chi non vuole dimenticare: chi è pronto persino a una marcia su Lhasa. E' un gruppo di monaci che parte da Dharamsala e che conta di arrivare nella capitale tibetana nel momento in cui a Pechino cominceranno le Olimpiadi. L'occasione è ghiotta. Gli occhi del mondo sono puntati su Pechino. E' il momento di ricordare cosa è successo nel marzo del 1959, in quelle due settimane maledette tra il 17 e il 28, quando la Cina si è mangiata il Tibet e il Dalai Lama è dovuto fuggire in India.

E' una storia che finisce male. Che sembra ripercorrere, nel sangue e nel dolore, quel marzo del 1959.

Quella dell'indipendenza del Tibet e dei desideri che si affacciano su questa preziosa torta geopolitica ricoperta di neve viene da lontano. E' anche la storia di una teocrazia conservatrice e socialmente arretrata ma dove i fermenti della modernità hanno fatto, anche li, la loro piccola strada. Una strada che spesso viene limitata dagli appetiti di chi ha messo gli occhi addosso alla regione: russi, cinesi e britannici. I primi due sono i colossi dell'Asia: il terzo lo è diventato costruendo il suo impero nel subcontinente indiano. Dawa Norbu, un tibetano specialista di Storia asiatica che vive a Parigi, la racconta così, sostenendo che proprio questa lotta per garantirsi un controllo o evitare che altri ne avessero, finì a favorire un isolamento che, anziché essere splendido, condannava il Tibet a restare ai confini del mondo e del suo sviluppo

Nel 1950 – scrive Dawa Norbu - il Tibet era una teocrazia isolata, forse unica nel suo genere nel mondo moderno. Era però condannata, dagli interessi in conflitto di Russia, Gran Bretagna e Cina a un isolamento ancora più forte che rinforzava quello naturale di un Paese di montagne. Sia il trattato anglo tibetano del 1904 sia quello anglo russo del 1907 erano infatti tesi a creare un' area libera delle influenze reciproche. Cosa che in questo modo negava al Tibet qualsiasi possibilità di cambiamento sociale. E se però in qualche modo i britannici favorivano la sua indipendenza e autonomia, i cinesi erano invece feroci oppositori di ogni influenza esterna. Temevano che, occupati com'erano con la rivoluzione, Londra avrebbe finito per fare del Tibet una colonia. Sebbene gli inglesi non avessero intenzione di sfruttare economicamente il Tibet non si opponevano alla sua modernizzazione, ovviamente finché si fosse svolta sotto l'occhio vigile di Londra. Il 13mo Dalai Lama, dopo una serie di viaggi in Mongolia e in India, prestava attenzione a queste aperture guardate invece con sospetto dalla comunità conservatrice monastica, cosa che – dice sempre Dawa Norbu – fu favorita dai cinesi che erano considerati i tradizionali custodi del buddismo tibetano nei confronti di possibili ingerenze esterne come quelle dei cristiani.

Dunque in quella società, per certi versi conservatrice e feudale, si muovono forze progressiste che ne sottolineano la vitalità. E dunque per i cinesi il controllo del Tibet resta un punto chiave, si tratti anche di appoggiare i segmenti sociali più conservatori del Paese. Per i cinesi il controllo del Tetto del mondo è di vitale importanza ma la vera occasione arriva solo negli anni Cinquanta, quando l'epoca classica del colonialismo sta ormai arrivando alla sua nemesi storica. Per i cinesi, fin dalla nascita della Repubblica popolare nel '49 e ancor prima di quell'evento, la riunificazione col Tibet è un elemento primario. Bisogna riaccorpare i territori “separati dalla madre patria”. Il 7 ottobre 1950, quarantamila soldati dell'Esercito popolare di liberazione attraversano il corso superiore dello Yangtze e dilagano nel Tibet orientale. Avanzano incontrando poca resistenza. Una settimana dopo, l'attuale Dalai Lama, Tenzin Gyatso che allora è solo poco più che quindicenne, viene dichiarato maggiorenne e diventa sovrano del Tibet a tutti gli effetti. Ma ormai è un sovrano senza Stato.

I cinesi però vogliono le cose a posto nonostante l'invasione non abbia sollevato grandi problemi nella comunità internazionale. Pensano a un accordo, l'Accordo fra il governo centrale del popolo e il governo locale del Tibet sulle misure per la liberazione pacifica del Tibet, chiamato in forma breve anche l'Accordo dei Diciassette punti. E' un documento che viene firmato dai delegati del 14 ° Dalai Lama nel 1951. I cinesi lo considerano un contratto legale, reciprocamente accolto da entrambi i governi, ma i tibetani lo rifiutano come un atto illegale perché firmato sotto costrizione. Il Dalai Lama lo ha rinnegato in più occasioni. Ma come è andata? La Cina ha in sostanza chiesto al Tibet di inviare rappresentanti a Pechino per negoziare un accordo. Il Dalai Lama accetta ma ai delegati non è concesso suggerire modifiche. Inoltre non gli è permesso comunicare con il governo di Lhasa. La delegazione tibetana, pur non essendo stata autorizzata a firmare, alla fine - sotto la forte pressione dei cinesi – sigla l'accordo. E' il via libera legale all'assimilazione del Tibet. Le cose però non vanno lisce anche se devono passano otto anni.

La rivolta scatta il 10 marzo del 1959 in seguito a un evento apparentemente ordinario. I cinesi
hanno invitato Tenzin Gyatso a uno spettacolo teatrale nel quartiere generale dell'esercito che si trova alle porte della capitale. Il Dalai Lama accetta ma le autorità militari lo invitano a venire rinunciando alla scorta che di solito lo accompagna. In città si diffonde l'idea, largamente condivisa dalla leadership tibetana, che in realtà l'invito nasconda l'opportunità di un sequestro e la reazione non si fa attendere. La gente della capitale scende in strada come a voler sigillare il percorso che porta dal palazzo del Dalai Lama alla caserma. E' però una miccia che innesca l'esplosione di una rivolta latente.

Tom Grunfeld, uno storico americano, sostiene che la rivolta di Lhasa non fu semplicemente una ribellione anti cinese. Fu anche, scrive in The Making of Modern Tibet, una rivolta contro il comunismo e il feudalesimo: una doppia rivoluzione, diretta anche contro i privilegi della tirannia religiosa locale cosi come contro la tirannia imperialistica del comunismo cinese. Una rivolta che combinava assieme la rivoluzione ungherese con quella francese. Quel che è certo è che in quelle tragiche settimane che vanno dal 10 al 28 marzo, si consuma il dramma tibetano. Quel giorno, il 28, tre tramonti dopo la riconquista di Lhasa il 25 marzo, un atto formale del Consiglio di Stato firmato da Zhou Enlai abolisce di fatto il sistema teocratico e feudale del Tibet. E dissolve – cancella - il governo tibetano.

Il 12 marzo la città è piena di barricate e di manifestanti che chiedono l'indipendenza. Si mescolano sentimenti diversi che forse possono essere riassunti nelle preoccupazioni che alcuni profughi tibetani confidano anni dopo a Grunfeld:
c'è il timore di non poter più praticare il buddismo; poi i racconti sulle atrocità commesse dagli Han, l'etnia principe dei cinesi; i rumor sul fatto che i matrimoni fra tibetani sono vietati ed è obbligatorio sposare un Han; c'è la fuga del Dalai Lama e l'insicurezza di un futuro incerto
E' il 1975 quando Grunfeld fa la sua ricerca. Sono passati più di 15 anni dalla rivolta ma nella testa dei tibetani nulla è cambiato

Torniamo a Lasa attanagliata nella morsa della protesta e della repressione. I cinesi hanno dislocato l'artiglieria e il 17 marzo il primo proiettile arriva vicino al palazzo del Dalai Lama. E' il segnale definitivo che Tenzin Gyatso deve prendere la strada dell'esilio. Ha appena 21 anni e regna da nemmeno due lustri. Il suo tempo è finito e, presto, anche quello della rivolta di Lhasa.

La rivolta si conclude con una strage. Il numero dei morti è incerto e non provato da documenti storici anche se i tibetani stimano il bilancio a 87mila morti. I cinesi invece hanno lasciato sul campo 2mila soldati. L'asimmetria è evidente: da una parte le armi sono piccole e poche in una rivolta semi spontanea. Dall'altra, la Cina ha i cannoni, l'aviazione, un esercito disciplinato e organizzato. I danni ai monasteri e le testimonianze raccontano il resto: raccontano di una battaglia furiosa e di esecuzioni sommarie. Di una repressione che non lascia quartiere. Tenzin Gyatso intanto è fuggito, di notte, accompagnato dalla sua scorta. Obiettivo: raggiungere l'India. Passa diverse notti in un ricovero per monaci mentre esercito e aviazione setacciano i villaggi alla sua ricerca: mentre si conclude nel sangue la rivolta di Lhasa, i generali cinesi infuriati cercano di mettere il cappio attorno al leader politico e spirituale dei tibetani. Non ci riescono

Il Dalai Lama raggiunge Towang, oltre la frontiera. Il suo viaggio verso l'esilio è durato due settimane. La sua fuga, scrive Jennifer Latson per Time magazine, è stata protetta da una coltre di nubi basse evocate dalle preghiere dei monaci che hanno impedito agli aerei di vedere i movimenti del drappello di fuggiaschi. E' il 30 marzo 1959. Il palazzo di Norbulingka è lontano e il suo governo è stato spazzato via con la rivolta. Tenzin Gyatso sa che anche il governo tibetano, ristabilito formalmente a Lhudup Dzong in quei giorni, un governo che rigetta l'accordo dei 17 punti, non ha futuro. Il 25 marzo, le truppe di Pechino hanno ormai riconquistato la capitale. La rivolta è finita. Ora Zhou Enlai può firmare il decreto. Tre giorni dopo la riconquista della capitale il Tibet autonomo sparisce dalla storia. Al suo posto c'è una festa nazionale che ha il nome di una beffa: celebra il giorno dell'emancipazione.



Del Tibet ci si occupa ormai solo in rari casi. Spesso quando è utile citare il Dalai Lama per fare un dispetto alla Cina o quando la cronaca ci obbliga a riparlarne. E' successo nel 2008. Succede quando un monaco o una monaca si danno fuoco, una pratica che il Dalai Lama ha fortemente condannato ma che è il segno inequivocabile di un malessere irrisolto. Il Dalai Lama ha rinunciato dal 1987 a rivendicare l'indipendenza del Tibet ma lo statuto di “regione autonoma” non è in realtà che un nome
improprio come una foglia di fico su un territorio dove bisogna essere cinesi prima che tibetani. La comunità internazionale se ne occupa poco e dunque salvaguardare la cultura e le tradizioni di questo paese – in una parola la sua identità – è difficile quando non impossibile. Eppure nel 1992 il Tribunale permanente per i diritti dei popoli con sede a Strasburgo, un'istituzione creata dal politico italiano Lelio Basso negli anni Settanta, studiò il caso Tibet e arrivò a queste conclusioni: il tribunale giudicò che sottomettere negli anni Cinquanta il Tibet al regime del diritto internazionale, considerando che il suo passato lo aveva visto ripetutamente avere un rapporto di vassallaggio con la Cina, ne snaturava l'identità statuale, quella di uno Stato a parte, fuori allora dalle regole di quel diritto internazionale sancito dalle Nazioni unite cui Lhasa non aveva aderito. Un Paese però, che se non rientrava nei canoni del diritto internazionale dell'epoca, aveva dimostrato più volte la sua volontà di partecipare, come soggetto attivo – dice il tribunale – a una vita internazionale effettiva. I magistrati dunque gli riconoscevano un'esistenza di entità statuale propria, con gli attributi dunque di una sovranità interna. Un punto di partenza che oggi, anche nell'ottica di un'appartenenza del Tibet alla Cina, potrebbe costituire la base di un negoziato serio attraverso il quale ricostruire una reale autonomia. Una scelta politica, sia da parte cinese, sia da parte tibetana. Che sembra però ancora lontana.

Ai microfoni di Radio3 il 25 marzo alle 14 per Wikiradio (Radio3) il ricordo quelle due settimane e la fine dell'indipendenza tibetana 

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