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mercoledì 29 giugno 2016

Onu/Italia: accordo salva la faccia all'Aja e a Roma

Accordo sul filo del rasoio tra l'Italia e l'Olanda per il seggio come membro non permanente al
Consiglio di Sicurezza dell'Onu. I due Paesi si divideranno il seggio un anno per ciascuno. Renzi, riferiscono le agenzie, avrebbe proposto per l’Italia il 2017, quando Roma avrà la presidenza del G7, mentre all’Olanda andrebbe bene avere il seggio l'anno successivo, nel 2018. Una maratona dolorosa conclusasi dopo una giornata di votazioni (cinque) senza risultato e senza che nessuno dei due raggiungesse il quorum di 128 previsto. L'Assemblea dovrebbe oggi ratificare il bizzarro accordo.
 Proviamo a ricapitolare.

Messa ormai da parte la battaglia per una riforma del Consiglio di sicurezza dell’Onu, l’Italia si è fatta avanti per ottenere il suo settimo mandato come membro non permanente del CdS. All’inizio va male: l’Assemblea plenaria dell'Onu ha eletto nel CdS al primo turno di votazioni la Svezia, l’Etiopia e la Bolivia. La Svezia ha ottenuto 134 voti, Amsterdam 125, Roma 113. C’erano dunque in ballo due seggi: uno per l'Europa occidentale - per cui restavano in ballottaggio Italia e Olanda - e uno per l'area asiatica - per cui correvano Thailandia e Kazakistan. Ma al ballottaggio con l'Olanda, Roma ha ottenuto solo 94 voti contro i 96 dei Paesi Bassi. L'Assemblea ha aggiornato la seduta. Nel secondo turno ha invece vinto il Kazakistan sulla Thailandia. Al voto seguente il nostro paese ha ottenuto 95 voti, e l'Olanda 96. Dopo 5 votazioni i due governi si sono salomonicamente accordati salvando il salvabile.


Il Consiglio di sicurezza, organo supremo dell’Onu, ha 5 membri permanenti con diritto di veto e altri dieci a rotazione di cui 5 si eleggevano appunto ieri. Com’è noto i permanenti – Usa, Russia, Cina, Regno Unito e Francia – hanno tre atout in borsa: sono i vincitori della II Guerra mondiale, son potenze nucleari, han diritto di veto. E son permanenti: lezione di evidente ingiustizia che consente loro di fare il bello e il cattivo tempo, esercitare il veto, imporre risoluzioni. Non di meno, essere nella banda dei 15 ha il suo peso. E’ li che si decidono (in parte) i destini del mondo, a cominciare dalle missioni dei caschi blu, carta che l’Italia poteva giocare grazie al fatto di essere un contribuente importante, per finire col al dossier rifugiati. Renzi ci teneva e ha messo in piedi la sua macchina del consenso sfruttando una vecchia scuola che si deve a Francesco Paolo Fulci, il diplomatico italiano che, negli anni Novanta, tentò il colpaccio: riformare, allargandolo, il CdS. Andò male ma il consenso sul progetto in parte era rimasto. Roma si è dunque messa in lizza e doveva vedersela con Svezia e Olanda, due Paesi non così minori come sembra. Il primo in particolare è un grande donatore, motivo per il quale l’Italia ha rilanciato sui fondi per la cooperazione aumentandoli e creando l’Agenzia che, seppur “indirizzata” da un viceministro ad hoc (Mario Giro), agisce ora in autonomia e, si spera, con meccanismi più rapidi e meno farraginosi. Ma la cooperazione è solo uno dei tanti aspetti. Roma ha puntato sul suo ruolo di Paese cerniera nel Mediterraneo e sul suo attivismo in Libia, se non altro rivendicando di aver messo il cappello sull’opera di mediazione a sostegno del nuovo governo faticosamente insediato nel pasticcio libico dove, dopo un primo momento di imbaldanzimento interventista, l’Italia ha frenato mettendo da parte per ora velleità belliciste. Non era bastato.

Difficile dire se nel colloquio di due giorni fa con Angela Merkel Renzi abbia toccato il tema con un partner molto sensibile al nodo CdS e le cui mire per un posto al sole nel Gran Consiglio dell’Onu sono da sempre evidenti. Ma certo Renzi ci ha lavorato in questi mesi, convinto forse che un successo all’estero di Gentiloni potesse servire a smorzare polemiche e scontento verso il suo governo e dentro il suo partito. Non c’è, a quanto si sa, una riedizione del progetto Fulci ma la conquista del seggio per un biennio è un passo importante nella stanza dei bottoni anche se le decisioni, come ben dimostra il caso siriano, si prendono a Mosca e a Washington bypassando il Palazzo di vetro, ormai sempre più relegato a ruolo di notaio.

Raccontava un diplomatico, all’epoca un giovane allievo di Paolo Fulci, come il capo delegazione imponesse ai suoi sottoposti levatacce propedeutiche a prendere il caffè con questo o quel rappresentante di Paesi “minori”. Fu Fulci a puntare sulle piccole isole per aumentare il consenso al Coffee Club, un gruppo di pressione fondato con Paesi come Egitto, Pakistan e Messico che si proponevano una riforma del Consiglio di sicurezza per strappare ai 5 “nucleari” lo strapotere che consente loro di dettar legge o di bloccarla. Nel contempo si sbarrava il passo alla Germania che mirava a diventare il sesto “grande”. Fulci perse la partita ma creò una squadra di Paesi. Per ora non è servito per vincere al primo colpo. Ma l’accordo ha salvato la faccia sia a Roma sia all’Aja.

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