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giovedì 16 marzo 2017

Cooperazione dolce

Un'ape "carica" dell'apicoltore Hatem Ait Ali
In Algeria c’è un’associazione di produttori di miele di qualità che sfrutta tutte le sfumature climatiche producendo anche nel Sahara. E che lavora con gli standard proposti dalla “Carta dei mieli del Mediterraneo”. Un progetto europeo che ha un’anima umbra. Un reportage dalle nuove frontiere della biodiversità.


Si racconta che negli anni Sessanta, subito dopo l’indipendenza dalla Francia, il tunisino Bourghiba e l’algerino Boumedienne avessero qualche preoccupazione sulle mire espansionistiche dell’Egitto. Per evitare scomode ingerenze Bourghiba propose che la dizione Maghreb riguardasse solo i tre Paesi che avevano in comune... il cous cous, piatto tipico di Marocco, Algeria e Tunisia. Vero o non vero, questi tre Paesi hanno in comune anche l’apis mellifera intermissa o ape nera, un insetto prezioso e diffuso soprattutto in Algeria e Tunisia con colonie in Marocco e qualche puntata in Libia e nel Sud della Spagna. Ignorata per molti anni e con la fama (ingiustificata) di essere molto aggressiva, l’ape nera sta conoscendo un momento di splendore. Le università locali ne studiano le peculiarità e lavorano alla selezione e alla salvaguardia della specie. Ma questo lavoro è soprattutto diffuso in una nuova generazione di apicultori che, abbandonato il sistema tradizionale di allevamento, si è rapidamente messa al passo con le tecniche più recenti di selezione e cura delle api con l’obiettivo di trasformare l’apicoltura magrebina in un segmento produttivo che mira alla qualità del miele e che contribuisce alla biodiversità. E sì perché le api non producono solo miele, propoli, polline e pappa reale. Stimolano, con l’impollinazione, nuove colonizzazioni agricole che possono rendere verde anche il deserto.


Tahar Souna al lavoro
Il viaggio comincia nei dintorni di Algeri nell’azienda famigliare dei Souna dove Tahar, che ha solo 36 anni, ci accoglie con grande cordialità. Tahar, il cui padre è morto l’anno scorso in un incidente, ha ereditato coi suoi tre fratelli, l’azienda paterna figlia di una grande ambizione. Per inseguire le fioriture naturali infatti, Tahar, come quasi tutti gli apicultori algerini, a maggio si sposterà nel Sahara dove suo padre aveva acquistato ben 400 ettari. Il sogno del vecchio Souna era rendere fertile una porzione di quelle terre aridi dove, se c’è acqua, cresce benissimo una specie della famiglia delle Ramnacee, lo jujubier che noi chiamiamo giuggiolo (Zizyphus vulgaris). Quest’albero da frutto è coltivato nella regione mediterranea per il frutto carnoso e dolce che può essere consumato crudo o essiccato. Ma adesso vien messo a dimora soprattutto per i suoi fiori gialli di cui le api sono ghiotte. Tahar ha scavato un pozzo a 400 metri di profondità e ha iniziato a trapiantare le pianticelle che ora crescono alla periferia di Algeri in una serra che mostra con orgoglio. “I semi – dice – li ha presi mio padre in Yemen” dove la tradizione vuole che lo jujubier raggiunga il massimo splendore. Tra qualche anno il nomadismo sahariano di Tahar si rivolgerà alle sue terre dove le pianticelle già iniziano a fruttificare. Niente discussioni dunque con altri apicultori, ghiotti, come le loro api, di questo fiore che dà un miele dolcissimo e ricercatissimo soprattutto sui mercati arabi e nel Golfo.



Giuggiolo o jujubier
“Effettivamente - spiega Mohammed Hamzaoui, un apicoltore di Blida, alle porte di Algeri - c’è ormai molta concorrenza nelle regioni sahariane dove fioriscono diverse specie quando nella zona costiera, quella dove risiedono i produttori, i fiori sono caduti. Anche per questo abbiamo creato Anap, l’Associazione degli apicoltori professionisti, in modo tale che ci si possa mettere d’accordo”. Ma non è solo una questione di posti al sole: l’Anap ha sposato l’idea che il miele algerino possa essere alla pari con quelli prodotti in Europa dove gli standard sono elevati e richiedono un’apicoltura tecnicamente avanzata con prodotti garantiti. “Per ora siamo circa 200 soci ma non è il numero che ci preoccupa. Anzi. Chi vuole aderire deve infatti garantire gli standard che applichiamo: una difesa della qualità dei nostri prodotti”. L’evoluzione è recente e la racconta Hocine Difallah mentre ci accompagna nella sua azienda: “Durante l'epoca del terrorismo (gli anni Novanta ndr) l'apicoltura tradizionale ha visto un crollo: la gente scappava dalle campagne e abbandonava sia l’agricoltura sia le api. Ma dal Duemila in avanti, quando le cose hanno iniziato a cambiare, qualcosa si è mosso. Molti giovani hanno visto che col miele si poteva vivere ma anche che bisognava cambiare metodi e mentalità”. Hocine vive del miele e con lui altre tre famiglie. Ma si è “modernizzato”: nella sua azienda si prepara il polline, la pappa reale e si selezionano le “regine” che altri produttori vengono a comprare. C’è una filiera che comprende macchine per smielare ma anche un piccolo laboratorio dove il prodotto viene monitorato con attenzione. Se ne occupa Hassan, suo fratello, che tiene un libro mastro dove ogni arnia (son più di 700) ha un numero, una storia, una funzione. E il risultato si sente.

Hocine, Mohammed, Tahar – così come Jamal Bouazria che sta nella piana di Mitidja o Lounis Touati in Cabilia o ancora Hatem Ait Ali alle porte di Algeri – sono dunque una generazione di apicoltori che sta inaugurando una nuova stagione. Hanno aderito a un progetto promosso da APIMED, un’associazione che rappresenta 24 organizzazioni apistiche in 12 Paesi del Mediterraneo e che ha promosso la “Carta dei mieli del Mediterraneo” con standard in difesa del consumatore e dell’ecosistema di cui le api sono inestimabili guardiane. Il progetto si chiama Mediterranean CooBEEration ed è finanziato dall’Unione europea in partnership con altri soggetti tra cui il programma Art di Undp. Ma il suo cuore è in Umbria. E’ un’idea nata diversi anni fa nella testa di un apicultore, Vincenzo Panettieri, e che ha trovato il sostegno di Felcos Umbria, un fondo di Enti locali per la cooperazione decentrata. Attraverso quel progetto gli apicoltori algerini hanno avuto accesso a corsi di formazione e a una coscienza del loro lavoro che si è formata con la collaborazione di università e centri di ricerca sia in Europa (l’Università di Torino ad esempio) sia in altri Paesi del Mediterraneo (la Tunisia o la Grecia). Chissà che il miele di jujubier algerino non arrivi un giorno anche sulle nostre tavole.

Questo articolo è uscito su Repubblica Online.





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