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domenica 6 agosto 2017

Sogno americano*

Greyhound coast to coast. La panamericana. Droghe e lotta armata. Allucinogeni e allucinati. Scuola di illegalità. Rimpatrio alla portoghese. L'ultimo capitolo di Viaggio all'Eden*

A quelli di noi cui andava stretto persino il Viaggio all’Eden, il volo magico che negli anni Settanta portava verso Kathmandu, si apriva anche un’altra pista. Era il viaggio negli States che proseguiva fino in Messico e da lì, attraverso il Centroamerica, lungo la Panamericana, nella lunga discesa che percorreva le Ande, attraversava la selva e la montagna, raggiungeva il deserto del Perù, risaliva in Bolivia, si allungava fino al Brasile. Era un altro viaggio, naturalmente, ma lo spirito non era per niente diverso. Chi aveva soldi comprava una macchina a New York e correva fino a Frisco, Sognando la California come gli italici Dik Dik avevano tradotto California Dreamin’, cantata dai Mamas and Papas o dai Beach Boys. Ma la maggior parte di noi, denari ne aveva meno e aveva fretta di raggiungere i posti da uno o due dollari al giorno (uscivano allora volumi col titolo South America on …. dollar a day, con cifre per tutte le tasche) e poiché il viaggio negli Usa era competitivo sul prezzo, si sceglieva di cominciare da Nord. Una volta guadagnata la Grande Mela, si saliva su un Greyhound, l’inconfondibile pullman col levriero, per fare in 10 giorni coast to coast. Negli anni Settanta, il volo Lussemburgo-New York costava appena 100 dollari e con altri 500 si poteva star via mesi. Gli Stati Uniti – la cui cultura underground era all’origine dei grandi movimenti degli anni Sessanta-Settanta poi declinati in chiave nazionale - erano solo una tappa veloce per gli squattrinati abituati ai prezzi indiani. Il fascino del rock, della letteratura Beat, dei santoni dell’Hyppismo restava confinato in un tributo ideale – leggere Kerouac o sentire Zappa - e venivamo trascinati inevitabilmente al Sur. Il Messico non era ancora stato sequestrato dalle narcomafie ma era saldamente occupato dalla mafia politica del Partido Revolucionario Institucional, che di rivoluzionario aveva solo il nome e longevità infinita. Laggiù, sorseggiando Tecate in lattina o Carta blanca in bottiglia, ascoltando le frequenze di Radio Mundo, fumando marijuana e andando in cerca del peyote, il cactus magico degli Huicholes, ci ammaestravamo con i libri di Carlos Castaneda, peruviano statunitense che ci aveva affascinato con gli insegnamenti di Don Juan, personaggio forse di fantasia che gli aveva fatto partorire 12 libri tradotti in 17 lingue. La sua «via Yaqui alla Conoscenza» (A scuola dallo stregone, 1968) era un’iniziazione allo sciamanesimo che andava a braccetto con la mistica che ci stregava in Oriente.

Illustrazione di Maurizio Sacchi. Sotto, a sn foto di Guido Corradi. Sotto a dx foto di Davide Del Boca

La Panamericana si poteva attraversare con mezzi pubblici scalcinati, autostop che andava alla grande o treni merci frequentati da poveracci locali e da banditi che aspettavano il prossimo gonzo. Molte delle informazioni fondamentali riguardavano le droghe, le chiavi per aprire le Porte della Percezione che nelle Americhe non erano meno presenti che in Asia. Con quei viatici scendevamo fino alla bellissima Colombia in cerca di funghi allucinogeni e la miglior erba del mondo, giù fino alla Quito coloniale e verso le Ande peruviane in cerca del cactus San Pedro, che come il peyote contiene mescalina. Oppure verso l’Amazzonia in cerca della Ayahuasca, la liana degli spiriti dei morti, i cui viaggi allucinati necessitano un curandero. Infine, come tacere della cocaina e non certo quella in foglie masticata dagli indigeni delle Ande. La mafia colombiana con le sue alleanze trasversali ne aveva già fatto un lucroso commercio che partiva dalle raffinerie clandestine sparse nella foresta e che controllava coi suoi manovali assoldati a poco prezzo nei barrio marginali della grandi città o con accordi con la guerriglia che in Colombia controllava intere regioni e amministrava città, tasse, arruolamenti e coltivazioni.


La rivoluzione era l’altra grande attrattiva di un continente dove gli scritti di Camillo Torres e Che Guevara avevano abbeverato i nostri sogni di giovani ribelli cui già sembrava che la revolucion cubana avesse tradito gli ideali originari. A quell’epoca il Nicaragua era ancora sotto il tallone dei Somoza, la Colombia era una fucina della guerra di guerriglia e in Bolivia la dittatura di Hugo Banzer aveva fatto fuori, una decina di anni prima, il mitico Ernesto detto “che” per quell’intercalare comune tra i porteños, gli argentini di Buenos Aires. Infine c’era stato il colpo di Stato in Cile che aveva assassinato Allende, fatto sparire centinaia di persone e scritto fine sulla via pacifica del socialismo nel Cono Sur. In Sudamerica c’era tutto e il contrario di tutto: la rivoluzione cubana e i forse inevitabili compromessi con l’Urss, i movimenti maoisti, la lotta armata, partiti populisti, puri e duri col fucile in spalla e paramilitari assassini, assoldati spesso dai cartelli della droga capaci di allearsi ora coi primi ora coi secondi sfruttando l’estesissimo odio del Sud per il Nordamerica, odio cui sfuggivamo proprio perché non eravamo yankee. Abimael Guzmán aveva da poco fondato Sendero Luminoso.
Il viaggio poteva finire bene o male a seconda dell’attività illegale intrapresa. Come e forse più che nel Viaggio all’Eden, il Sudamerica era in effetti una vera scuola di illegalità: traffico di stupefacenti, dollari falsi oppure perdita o furto fasullo di travelers cheques, “assegni turistici” assicurati che, dopo aver incassato l'equivalente mostrando la denuncia (vera) di furto o smarrimento (falsi), venivano poi incassati appena passata la più vicina frontiera nella prima banca dove avrebbero saputo forse solo un mese dopo di aver pagato una seconda volta cheque già rimborsati. Poteva finir bene anche con un altro sistema che, per noi italiani, si era poi dimostrato per anni un ottimo modo di tornare a casa come portoghesi a carico dello Stato. Come in India qualcuno aveva scoperto lo sportello ferroviario “per soli bianchi”, noi avevamo scoperto che le ambasciate italiche in Sudamerica potevano offrire un servizio di rimpatrio gratuito via nave agli emigranti italiani cui l’indigenza non consentiva di pagare il biglietto.

Chi dunque arrivava in Brasile senza ormai più una lira in tasca, andava a batter cassa al consolato
...ma il sogno restava Kathmandu...
di San Paolo o di Rio piangendo in sette lingue e mostrando le foto dei parenti e le tasche bucate. Quei diplomatici che non avevano ancora conosciuto le orde di questuanti che affollavano le varie legazioni sulla rotta dell’Eden, compilavano il formulario di rimpatrio fino al porto di Genova con annesso biglietto ferroviario fino alla città natale. Senza ritegno sfruttavamo cinicamente l’antica miseria dei nostri migranti che all’inizio del secolo avevano cercato fortuna nel Nuovo Mondo con alterni destini. Era la scuola dell’Eden e stavamo già pensando a come tornarci perché si favoleggiava di una nave da Rio per Dakar e da lì a Bombay... Discoli, certamente, e sempre in compagnia di cattivi maestri, avremmo importato salsa e merengue, canti rivoluzionari, poncho di alpaca, frasi gergali imparate nel Salvador, cocaina e maria. E avremmo esibito un’altra sequela di tacche sul passaporto che, tra l’altro, nelle Americhe di visti non c’era bisogno. Fatta eccezione per gli Stati Uniti, che per rilasciarlo pretendevano che tu sottoscrivessi di non esser mai stato comunista. Beffare gli yankee con una menzogna burocratica era una delle nostre più grandi soddisfazioni.
Su quelle strade ripetevamo come un mantra l’ultima frase con cui Jack Kerouac aveva terminato Sulla strada - On the Road – uno dei nostri testi sacri: «Così in America quando il sole va giù e io siedo sul vecchio diroccato molo sul fiume a guardare i lunghi, lunghissimi cieli sopra il New Jersey e avverto tutta quella terra nuda che si svolge in un’unica incredibile enorme massa fino alla Costa Occidentale... nessuno sa quel che succederà di nessun altro se non il desolato stillicidio del diventare vecchi, allora penso a Dean Moriarty, penso persino al vecchio Dean Moriarty, il padre che mai trovammo, penso a Dean Moriarty».

* Questo capitolo (leggermente ridotto rispetto all'originale nel libro, è uscito venerdi 4 agosto su il manifesto)

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