Rudra Bianzino a 14 anni. L'ultimo compleanno con papa Aldo e mamma Roberto |
Dopo aver richiesto nel gennaio dell’anno scorso al tribunale di Perugia l’autorizzazione a esaminare le sezioni di encefalo e fegato di Aldo Bianzino fissate in formalina, i due medici sono arrivati a conclusioni clamorose che confermano le numerose zone d’ombra che già gravarono sul processo per omissione di soccorso (non per omicidio) che si concluse a Perugia con l’indicazione che Aldo non era morto per le botte ma per un aneurisma. In sostanza per cause naturali.
Adesso però legali e professionisti ritengono che vi sia un “...elemento nuovo non conosciuto al momento dell’archiviazione delle indagini” e “decisivo”. L’analisi dei reperti biologici di Aldo dimostra infatti due cose. La prima riguarda proprio l’aneurisma che è infatti solo un’ipotesi mai dimostrata in tribunale: “...le argomentazioni poste a sostegno di tale affermazione sono quanto meno lacunose”, è scritto nell’istanza, poiché “non c’è evidenza dell’aneurisma come elemento di certezza sul determinismo dell’emorragia”. Insomma questo aneurisma – che sarebbe la causa del sanguinamento cerebrale - non si trova “ e del resto manca buona parte del cervello, per esplicita e candida ammissione” degli stessi consulenti dell’accusa. In sostanza “a differenza di quanto affermato e non giustificato con metodo di evidenza scientifica” (dai periti), la genesi definita naturale dell’emorragia subaracnoidea “non è dimostrabile in assenza di un reperto anatomico di sacca aneurismatica”.
Infine gli accertamenti hanno consentito di datare la lesione nella regione epatica: “La lesione al fegato e quella al cervello insorsero nello stesso arco temporale. L’oggettività del dato – scrivono Gaetti e Scalzo – supera tutte le argomentazioni (già inverosimili!) dei CCTT (periti ndr) del PM...” e visto che le lesioni epatiche insorsero almeno due ore prima rispetto al momento del decesso non si possono ricondurre “alle manovre rianimatorie”, come era stato sostenuto, facendo risalire la lesione al fegato a un maldestro massaggio cardiaco per salvare Aldo morente dopo la ferita cerebrale dovuta all’aneurisma. La “sovrapponilità” dei due momenti dunque (sanguinamento cerebrale e lesione epatica) mettono in dubbio tutto l’impianto del processo. E riconducono all’ipotesi che Aldo sia stato picchiato a morte.
«Spero che il caso venga riaperto. Altrimenti – dice Rudra - chiederò la revisione dell’intero processo. E se quella via mi fosse rifiutata ricorrerò alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Alla richiesta di riaprire le indagini sulla morte di mio padre – aggiunge - ho voluto associare una petizione appello alla Procura di Perugia, al ministero della Giustizia e a tutti i parlamentari italiani. E non solo perché mi sostengano in questa battaglia ma perché venga istituita una Commissione parlamentare che indaghi tutti i casi di violenza compiuti dalle forze dell’ordine: dai più noti a quelli di cui non si è mai detto nulla. Questa battaglia non è una questione personale ma un problema di tutti. E deve dare forza e sostegno alle famiglie delle vittime, alle associazioni che si battono per la verità e per rendere giustizia a chi viene colpito nel silenzio e nell’impunità». Aveva 14 anni Rudra Bianzino quel 14 ottobre del 2007 quando suo padre, che di anni ne aveva 43, morì nel carcere di Capanne a Perugia dopo che la polizia gli aveva trovato in casa qualche pianta di marijuana. La vicenda fu un giallo sin dal suo esordio con un percorso di omissioni, inumazioni frettolose, contraddizioni patenti e una difesa a quadrato sia dell’istituzione carceraria sia della procura perugina. Adesso Rudra di anni ne ha 24. Non ha perso l’aria da eterno ragazzino e nemmeno lo spirito allegro e positivo che aveva sin da piccolo, ma in questi dieci anni ha maturato una coscienza politica in senso lato che, dal caso di Aldo Bianzino, ha portato Rudra a collaborare con chi si occupa dei lati oscuri del sistema giudiziario e penale
Hanno influito le recenti rivelazioni in casi come quello di Cucchi o dello stesso G8 di Genova?
Mi hanno solo aiutato a capire che se non c’è una persona di famiglia che si muove – penso a Ilaria Cucchi o a Patrizia Moretti la madre di Federico Aldrovandi – non succede nulla. E questo è scandaloso. Penso che uno Stato di diritto dovrebbe essere il primo a farsi carico di scoprire la verità se sono coinvolte le sue stesse istituzioni. Avviene il contrario, una cosa che mi ha sempre indignato. Questa consapevolezza mi ha spinto in questi dieci anni e continuerà a farmi lavorare in questa direzione
Chi ti ha sostenuto in questi dieci anni?
Tante persone e soprattutto due associazioni: Acad (associazione contro gli abusi in divisa) e A buon diritto. Fanno un lavoro incredibile di sostegno alle famiglie. Dopo la morte di mia madre Roberta, solo due anni dopo papà, ero solo, spaesato, non sapevo da dove cominciare… averli vicino è stato fondamentale
Chi ha remato contro?
Lo Stato ma anche tanti medici legali e anatomopatologi a cui ci eravamo rivolti per poter richiedere di fare nuove analisi sui reperti del corpo di papà. Guardavano gli incartamenti e poi...”No, non posso, un caso così mi taglia la carriera...”. Anche mia madre denunciò pubblicamente che quel che all’inizio gli aveva detto un medico legale non era poi diventato materia per il processo. Timori, opportunismo, silenzio. Poi l’avvocato Cinzia Corbelli ha incontrato il medico legale Antonio Scalzo e io ho conosciuto il professor Luigi Gaetti. Non solo due riconosciuti professionisti ma due persone con la schiena dritta.
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