Dopo aver condannato le proteste dei gruppi radicali in seguito alla liberazione di Asia Bibi, il governo del Pakistan ha fatto un accordo con i gruppi islamisti per por fine alle proteste cedendo di fatto alle loro richieste: il divieto per Asia Bibi di lasciare il Paese e la possibilità di una petizione alla Corte suprema che chiede la revisione del procedimento che ha assolto la donna cristiana accusata di blasfemia. A complicare il quadro, negli stessi giorni, è stato assassinato Sami Ul Haq, teologo della scuola Deobandi e uno degli ideologi del movimento talebano sia pachistano sia afgano tanto da esser stato chiamato "padre dei talebani" (sulla sua morte si è acceso un dibattito). Al centro della controversia e delle preoccupazione per le reazioni degli islamisti il neo premier Imran Khan, personaggio controverso e che, dicono diversi osservatori, si è rimangiato il discorso con cui aveva inizialmente condannato le proteste. Ne tracciamo un profilo.
La scena politica del Pakistan, abbastanza abituata agli scossoni politici, ha appena assistito all’ennesimo cambio della guardia. Impensabile soltanto pochi mesi fa. L’ex cricketer Imran Khan, un personaggio dal solido linguaggio populista e fino ad ora rimasto sempre un po’ al margine della scena, ha vinto clamorosamente le elezioni parlamentari dello scorso luglio, guadagnando al suo partito della giustizia - Pakistan Tehreek-e-Insaf (PTI) – gran parte dei seggi dell’Assemblea nazionale. Da 35 nelle passate consultazioni ai 149 attuali. Da comparsa a protagonista ora a capo del partito più forte nel Paese.
Imran ha dovuto però molto in fretta far i conti con la realtà e frenare le promesse elettorali che la crisi economica in cui versa il Paese non gli consente per ora di mantenere. Durante la campagna aveva promesso un nuovo welfare (un welfare “islamico” come quello prospettato a Medina dal Profeta), la riduzione delle tasse, giustizia sociale, dieci milioni di posti di lavoro e soprattutto una lotta senza quartiere alla corruzione. Ma appena raggiunto lo scranno di primo ministro si è trovato tra le mani una patata davvero bollente. Non certo la palla di pelle di cervo con cui era abituato a giocare nel campionato dello sport più popolare del Paese e dell’intero subcontinente indiano. La grana si chiama Fondo monetario internazionale. In altre parole, bisogno di denaro. Bisogno impellente che lo sta costringendo a giocare una partita non molto diversa da quella che avrebbero giocato sia il Partito del popolo della famiglia Bhutto, rimasto ormai importante solo nella provincia del Sindh, sia la Lega musulmana dei fratelli Sharif (Nawaz, l’ex premier, è stato condannato a 10 anni per lo scandalo emerso coi famigerati Panama Leaks, mentre Shahbaz è appena stato arrestato per dieci giorni per un indagine su un caso di corruzione) Imran si è ritrovato con 18 miliardi di dollari di deficit e la necessità di doverne sborsare a breve circa una dozzina per ripagare i debiti a breve termine. La necessità di un salvataggio finanziario ha costretto Islamabad a rivolgersi al Fondo monetario e a quel punto il terreno è diventato una sabbia mobile. Non solo sul piano interno ma perché gli americani, che col Pakistan hanno una politica del bastone e della carota – dettata soprattutto dalla situazione in Afghanistan – han fatto sapere che non sarebbe stato certo l’organismo nato a Bretton Woods a ripagare i debiti contratti dai pachistani soprattutto con i cinesi, che pure sono membri dell’Fmi. Uno scontro politico mirato forse a prender le misure sul nuovo inquilino di palazzo e a disturbare Pechino.
Mentre Islamabad parlava col Fondo, Khan si è dato comunque da fare anche su altri fronti: soprattutto chiedendo aiuto alla stessa Cina e all’Arabia saudita e poi mirando a una sorta di salvifica chiamata patriottica per le rimesse dei migranti, molti dei quali lavorano nel Golfo: per fare cassa e dimostrare “quanto sia solvibile” il Paese. Una speranza che secondo il premier dovrebbe portare a casa in breve tempo 20 miliardi di dollari che alimenterebbero l’asfittica economia pachistana che sta andando avanti a colpi di svalutazione della rupia, rompendo il patto sulla “rupia forte” voluto dal suo predecessore Nawaz Sharif. Imran Khan conterebbe anche su un programma di circa 5 milioni di nuove abitazioni residenziali per le classi meno abbienti, con un programma di finanziamenti agevolati che dovrebbe coinvolgere quattro decine di società edili e rilanciare l’economia. I suoi detrattori le hanno definite illusioni pericolose.
In attesa del piano finanziario del Fmi, sono uscite allo scoperto sul Pakistan tutte le tensioni che già esistono all’interno del Fondo tra la Cina e altri membri, tra cui soprattutto gli americani. Pechino appoggia Khan, cui ha prestato due miliardi pochi giorni dopo la sua elezione, e sostiene ovviamente la richiesta di Islamabad ma teme i paletti che il Fondo potrebbe mettere al Paese con cui i cinesi hanno firmato accordi miliardari (quindi con prestiti a lungo termine) per fare del Pakistan una costola fondamentale della Nuova Via della Seta. Un progetto che prevede un corridoio sino pachistano che da Kashgar nel Xinjang arriva al nuovo porto di Gwadar sul Mar Arabico, a un passo dall’Iran. Un affare da 60 miliardi tra strade, binari, impiantistica, aree di stoccaggio che andrebbe completato entro il 2030. Ma non c’è solo la geopolitica.
Il problema è anche interno e non solo perché in campagna elettorale Imran Khan aveva giurato di non voler chiedere nuovi prestiti con relativi piani finanziari esterni. Il Fondo, cui il Pakistan ricorre per la 13ma volta, potrebbe infatti imporgli misure di austerità, a cominciare dalla riduzione drastica dei beni sussidiati, che fanno a pugni con le promesse di una nuova stagione di welfare. Potrebbe imporre riforme strutturali antipatiche, un’ennesima svalutazione della moneta e chiedere, come ha già fatto, di vedere tutti i conti in sospeso del Paese. Christine Lagarde è stata chiara e ha già chiesto a Islamabad "trasparenza assoluta" sul debito nazionale, incluso quello con la Rpc. Infine, i tecnoburocrati del Fondo, non certo a digiuno di politica, potrebbero anche chiedere di verificare se Khan avrà o meno l’appoggio dei partiti d’opposizione. E’ la prima vera prova cui l’ex cricketer si trova di fronte.
Da dove viene la crisi? Da una crescita che sta rallentando e da un forte aumento dei prezzi del petrolio - il Pakistan importa circa l'80% del suo fabbisogno di oro nero – che ha contribuito al deficit delle partite correnti mentre l'indebolimento della rupia pachistana rilancia la competitività internazionale ma contribuisce a un aumento dei prezzi dell'energia e di altri beni prodotti localmente. Khan lancia messaggi rassicuranti - "Voglio dire a tutti voi di rimanere forti e di non lasciarvi prendere dal panico, questo è un periodo di tempo molto breve che passerà..." – ma i numeri dicono altro. La crescita prevista è per ora al 5,8% ma il Fmi prevede che scenderà al 4% nel 2019 mentre scenderà a circa il 3% a medio termine. Infine aumenterà oviamente il servizio del debito.
Eppure Kahn resta per ora la scommessa. Dei poveri e forse anche dei militari se è vero che, come sostengono molti osservatori, dopo la caduta in disgrazia di Nawaz Sharif - condannato per aver nascosto beni all’estero acquisiti illecitamente - anche i generali avrebbero cambiato cavallo. Con Nawaz le cose andavano male da tempo e il partito popolare dei Bhutto non è né forte né affidabile. Tant’è provare con Khan, un politico che tutto sommato i militari – tra l’altro una vera forza economica in un Paese dominato dalle lobby – li ha sempre trattati con rispetto. Senza dimenticarsi di strizzare l’occhio anche ai movimenti fondamentalisti. Vero, non vero? Se aveva appoggiato il golpe militare del generale Musharraf contro Nawaz Sharif nel 1999, è anche un uomo che i militari hanno messo in carcere ed è un personaggio che, seppur a parole, sostiene che la questione del Kashmir non si potrà risolvere solo militarmente. L’ex cricketer sessantaseienne nato in una ricca famiglia pashtun di Lahore è riuscito, nonostante l’allure da playboy con diversi matrimoni e divorzi alle spalle, a farsi paladino dell’etica islamica e a farsi amici gli islamisti dichiarando guerra alla "guerra al terrore" degli Usa, accusando i precedenti governi di aver mandato nelle aree tribali pashtun un esercito di occupazione e di aver tollerato che droni guidati dall’Afghanistan colpissero in Pakistan violando la sovranità nazionale. "Taleban Khan", come è anche stato chiamato, è piaciuto al popolino ma anche ai giovanissimi per la prima volta alle urne, che lo hanno visto come l’uomo nuovo in grado di liberare il Paese dal dominio delle grandi famiglie. Infine, e non va dimenticato, Imran Khan ha fatto valere il suo curriculum in assoluto più popolare: aver condotto la nazionale che capitanava alla vittoria della Cricket World Cup nel 1992. Adesso deve dimostrare che può riuscire a battere anche il Fondo monetario internazionale.
Questo articolo è uscito il mese scorso su AspeniaOnline
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