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martedì 28 maggio 2019

Ritorno al cinema (indonesiano)

L'occasione è stata il 70esimo anniversario dei rapporti tra Italia e Indonesia che oggi ha visto nella bella ambasciata della capitale un incontro istituzionale col sottosegretario Manlio Di Stefano, lo Iai e alcuni buoni conoscitori della regione tra cui l'ottimo Pietro Masina dell'Orientale. Ma al di là di questi incontri - comunque importanti nelle relazioni fra i due Paesi - credo che sia stata un'ottima idea che l'ambasciatrice Esti Andayani  e la PusbangFilm abbiano scelto di far precedere l'aspetto  istituzionale da un incontro col cuore di questo grande e splendido Paese. E cosa poteva farlo meglio di una rassegna cinematografica di una settimana (INDONESIAN CINEMA DAYS) affidata a Italo Spinelli che da anni seleziona, scopre (e filma) tutto ciò che si muove nella vasta area asiatica? La scelta è stata rigorosa (e coraggiosa) per i quattro giorni romani (dal 23 al 26 maggio, qui il programma) con un unico difetto: peccato che solo il pubblico della città eterna abbia avuto accesso a un cinema che ha fatto passi da gigante - come temi, tecnica, idee - anche se resta ristretto agli adepti dei festival in un Paese che all'Asia ha sempre rivolto uno scarso interesse se non con luminose eccezioni.

La rassegna (di cui ha parlato anche il Jakarta Post da cui ho tratto lo scatto che riproduce un  momento della discussione tra Spinelli e due attori e un produttore indonesiani)  è stata un'occasione anche per me. Non solo per i film (che nemmeno ho potuto vedere tutti) ma per tornare su un mio vecchio amore, l'arcipelago indonesiano,  tanah air kita, la "nostra terra d'acque" come gli indonesiani chiamano il proprio Paese con 17mila isole allungate su poco meno di due milioni di kmq su cui vivono quasi 270 milioni di persone. Questi incontri mi obbligano a pensare e anche a tentare di capire quanto questo Paese è cambiato. Anche grazie a una conversazione domenica in chiusura dell'evento con Antonia Soriente, asiatista dell'Orientale,  e Spinelli.


Secondo la Banca mondiale "...l'Indonesia è la quarta nazione più popolosa del mondo, la decima più grande economia in termini di parità di potere d'acquisto ed è membro del G-20. Paese emergente a medio reddito, ha fatto enormi progressi nella riduzione della povertà, riducendone il tasso a più della metà dal 1999..." (9,8% nel 2018). Tra gli analisti si dice infatti che la sua crescita ne farà la sesta o la settima potenza economica mondiale nel giro di qualche anno. E in effetti, i grandi imperi si basano su due elementi soprattutto: terra e popolazione. L'Indonesia è più popolata della Russia anche se non ha molta terra e questo significa di per sé avere un grande mercato interno a disposizione. E' però  penalizzata, per essere un mondo insulare, da due fattori: l'acqua e le isole. Oggi però la difficoltà di comunicazione è diventata un nodo che la telematica sta superando rapidamente mentre l'inclusione dell'Indonesia nel progetto della Via della seta marittima aiuterà l'esportazione dei suoi beni. Va aggiunto che l'Indonesia, un Paese instabile e a lungo vessato da spinte centrifughe, ha fatto passi avanti in questa direzione assai più di altre nazioni. La sua influenza e importanza dunque (anche per via dell'elemento religioso) crescerà.

Così le turbolenze di questi giorni non devono trarre in inganno ma vanno semmai situate all'interno di una guerra (fredda per ora) che si sta combattendo per il primato internazionale non dunque solo sulla scena nazionale dell'arcipelago. Non credo infatti che gli incidenti dei giorni scorsi a Giacarta si possano collegare solo ad elementi endogeni. Ne dico uno per tutti: Jokowi è un aperturista. Prabowo Subianto un nazionalista identitario fortemente anti cinese. Credo siano elementi che vanno considerati. Sarebbe come far finta che quanto avvenne negli anni Sessanta fosse solo un fatto interno...

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