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giovedì 8 agosto 2019

Negoziati e attentati

Un articolo per il manifesto a 4 mani con Giuliano Battiston

“Nel corso delle Operazioni Al-Fath un attacco martire ha colpito la stazione di polizia PD6 e l’adiacente Centro di reclutamento nella città di Kabul intorno alle 09:30 ora locale. L’attacco è stato condotto da un eroe dell’Emirato islamico, il mullah Jabbar Logari, con un camion carico di esplosivi che ha colpito la stazione dove vivevano e ricevevano addestramento circa 300 agenti di polizia ed esercito”. Recita così l’ultimo comunicato dei Talebani che rivendica la strage di ieri mattina a Kabul. Una strage non solo di poliziotti o soldati ma soprattutto di civili benché il comunicato della guerriglia si fosse affrettato a ricordare che la zona è chiusa al traffico non militare. I morti sono almeno diciotto e i feriti centocinquanta. La foto dell’esplosione del camion bomba, riprodotta sul sito dei Talebani, mostra un fungo di polvere bianca e nera che dà l’idea dell’enorme quantità di esplosivo utilizzata.

Chi si fosse illuso che i negoziati di Doha tra Talebani e americani avrebbe prodotto almeno un raffreddamento della guerra non ha che da controllare il bollettino quotidiano che, solo ieri, accanto all’attentato nella capitale – non certo improvvisato – aggiungeva due attentatori suicidi uccisi dall’esercito afghano alle porte di un campo militare a Baghlan, nel Nord, e altri due membri dello Stato islamico freddati durante un’operazione dei servizi segreti a Kabul in tre nascondigli degli affiliati alla cosiddetta “provincia del Khorasan”, la branca locale dell’Isis. A scorrere il calendario di luglio si conferma quanto due giorni fa ha riferito Unama, la missione Onu a Kabul: è stato il mese col maggior numero di vittime dal maggio 2017 a questa parte.

Agosto rischia di registrare un bilancio simile. A dispetto degli “eccellenti progressi” di cui ha parlato soltanto lunedì Zalmay Khalilzad, l’inviato del presidente Trump per la riconciliazione in Afghanistan, a proposito dell’ultimo round di colloqui con i Talebani a Doha, in Qatar. A giudicare dalle dichiarazioni di Khalilzad e degli stessi barbuti, oltre che dalle parole di martedì scorso del segretario della Nato Jens Stoltenberg, sarebbe davvero vicina la firma dell’accordo in 4 parti che prevede il ritiro delle truppe americane in cambio della garanzia talebana che il Paese non diventi un santuario per i jihadisti a vocazione globale, oltre al dialogo intra-afghano e a un cessate il fuoco prolungato. Dopo l’attentato di ieri, Khalilzad ha ricordato che, “mentre ci avviciniamo ai negoziati intra-afghani che produrranno un roadmap politica e un cessate il fuoco permanente”, “l’obiettivo immediato dovrebbe essere la riduzione della violenza”. Così come d’altronde era stato promesso soltanto un mese fa, il 7 e l’8 luglio a Doha, quando la delegazione dei barbuti, dopo aver discusso per 14 ore con alcuni rappresentanti del governo (a titolo personale) e della società afghana, aveva messo nero su bianco l’impegno a “ridurre le vittime civili fino a zero, creando un ambiente favorevole alla pace”.

Per ora, sia i Talebani sia gli americani continuano invece a seguire il doppio, opposto binario, discussioni fitte al tavolo negoziale e mano pesante sul fronte militare. I Talebani proprio martedì hanno annunciato inoltre il boicottaggio delle elezioni presidenziali già rimandate due volte e previste per il 28 settembre: “un complotto per ingannare la gente comune”, “una subdola trappola politica”, “una perdita di tempo, soldi e risorse per soddisfare l’ego di pochi politici”, “un trucco degli invasori e dei loro mercenari” che – questo l’appello rivolto ai mujahedin – va combattuto con ogni mezzo. Agli afghani, i Talebani dicono di “stare lontani dai comizi e dagli assembramenti”. Altrimenti, rischiano la fine delle vittime dell’attentato di ieri.



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