Visualizzazioni ultimo mese

Cerca nel blog

Translate

lunedì 12 agosto 2019

Indonesia al femminile: fragranti e blasfeme

Questo articolo è uscito sabato scorso su Alias

All’inizio fu Sastra Wangi o “letteratura fragrante”, un fenomeno che, alla vigilia della caduta della trentennale dittatura di Suharto, doveva sconvolgere il panorama culturale indonesiano. Quel fenomeno, incarnato soprattutto da Ayu Utami con Saman, era destinato a scuotere una letteratura per forza dormiente in un Paese – l'Indonesia – raccontato solo dalle pagine di scrittori soprattutto occidentali spesso non in grado di cogliere il fermento che stava maturando sotto la spessa coltre che il dittatore aveva steso su ogni forma di protesta. Il mondo si accorse allora che anche laggiù esistevano donne e che non erano solo danzatrici, cuoche o cameriere, inevitabilmente madri altrettanto inevitabilmente sottomesse. Ayu venne tradotta in italiano nel 2010 da Metropoli d’Asia, una casa editrice che segnava il risveglio della curiosità occidentale per le letterature asiatiche urbane e che voleva scoprire nuovi autori locali. Ayu denunciava i lati oscuri della società e al contempo raccontava la sessualità, argomenti tabù in quel mondo chiuso dove tutto era regolato dall’Orde Baru, il Nuovo Ordine introdotto dopo il colpo di stato del 1965, costato centinaia di migliaia di morti e una censura che non aveva risparmiato Pramoedya Ananta Toer, il vecchio scrittore imprigionato nell’isola lager di Buru. Nome che – in quegli anni – segnava il parto interrotto di una letteratura in attesa di liberazione (in Italia pubblicato da Il Saggiatore).

Sastra Wangi – un marchio che alcune scrittrici rifiutarono ma che alla fine fu il brand del primo movimento letterario femminile dell’epoca post dittatoriale della Reformasi - doveva aprire la porta a un flusso da allora ininterrotto: scrittrici ma anche registe (sotto il film scandalo di Nia Dinata sulla poligamia), autrici ma anche attiviste, pensiero ma anche azione. Oggi quel movimento è ancora un fiume in piena nonostante il tentativo di farne solo un episodio carsico. Feby Indirani ne è forse uno degli esempi più potenti. “Non è mica la Vergine Maria” (da poco uscito per Add, una casa editrice che sta creando un catalogo davvero interessante per gli amanti dell’Asia) non è un titolo acchiappa gonzi inventato per il pubblico europeo in cerca di riedizioni del kamasutra o incuriosito da richiami blasfermo-erotici. E’ il titolo che Feby ha scelto in originale perché Maryam è anche un personaggio dell’islam. E là, non diversamente da come accadrebbe qui se una scrittrice italiana citasse la verginità della madonna nel titolo di un romanzo, quella scelta non è certo passata inosservata.

Il libro è blasfemo in modo
 intenzionale e il doppio registro – se dunque scambiate la parola islam con cristianesimo – consente a Feby di parlare a un pubblico tanto vasto quanto lo è quello delle religioni del libro. In Indonesia il percorso è stato difficile come lo era stato all’inizio per Ayu Utami. Rifiuti e magari anche minacce. Paure, ritrosie, consigli forse di moderare almeno un po… Si può scrivere di una donna che resta in cinta senza aver avuto rapporti? E si può raccontare di una maialina che vorrebbe convertirsi all'islam per guadagnarsi il paradiso? E ancora, è possibile raccontare che c’è chi vorrebbe ammazzare il muezzin per via di tutto quel chiasso durante la preghiera? Feby è talmente blasfema che riesce difficile credere che sia una buona musulmana – come si dichiara - e che, pur senza eccessive prostrazioni, si china per pregare e magari osserva anche il precetto del digiuno.

Il libro di Feby – che esprime un desiderio di liberazione non solo femminile dalle maglie troppo strette dell’osservanza – è una lezione soprattutto per chi continua ad agitare la bandiera di un islam irriformabile. La scrittrice dell’ “islamismo magico”, come Feby ama chiamare il suo stile (pur se molti racconti sono ispirati da fatti reali), diventa il paradigma di un Paese dove – sorpresa! - la società civile si muove, oltrepassa, sfida. E al contempo richiama una tradizione letteraria locale che ha sempre fatto dell’ironia il veicolo per comunicare la rivoluzione del costume. Il merito di questa scoperta – che esce in Italia a soli due anni dalla pubblicazione in Indonesia – si deve anche ad Antonia Soriente che già aveva tradotto Ayutami. Questa volta la docente dell’Orientale di Napoli ha scelto di tradurre Feby con l’aiuto dei suoi allievi di indonesiano: una scelta collettiva che è un piccolo strappo alle regole della gelosia letteraria e che – anche questo – è un segno dei tempi. “Feby Indirani – scrive Soriente della postfazione – è convinta che scrivere racconti invece di saggi può cambiare il modo di vedere la religione e portare il lettore a non considerala sempre in maniera cupa e seria”. Una lezione per gli indonesiani bacchettoni ma anche per quelli di casa nostra che non oserebbero mai pronunciare il nome di Dio invano.


Nessun commento: