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venerdì 17 luglio 2020

Libertà di stampa, pugno di ferro in Malaysia

Il rapporto e la gestione con i migranti in Malaysia, caratterizzati nei mesi scorsi da deportazioni e arresti, ha visto crescere le intimidazioni ai giornalisti che si sono occupati del caso e suscitato la preoccupazione delle organizzazioni di difesa della libertà di espressione. L’ultimo capitolo riguarda un video di inizio luglio dell’emittente del Qatar Al Jazeera in cui viene documentato l'arresto di migranti privi di documenti durante la pandemia Covid-19. Il documentario - Locked Up in Malesia Lockdown – è stato criticato dalle autorità come inaccurato, fuorviante e ingiusto e il ministero della Difesa ha invitato Al Jazeera a scusarsi sostenendo che le accuse di razzismo e discriminazione contro i migranti privi di documenti erano false. La polizia ha annunciato un'indagine sul personale dell’emittente araba per reati come potenziale sedizione, diffamazione e violazione del Communications and Multimedia Act.

La tv del Qatar ha respinto le accuse, segno di una sterzata autoritaria che sembra aver chiuso la luna di miele tra governo e giornalisti che era appena stata lodata da Reporter Sans Frontieres, la maggior organizzazione di difesa della libertà di stampa, secondo cui “dopo la sconfitta a sorpresa del partito dell'ex premier Najib Razak nel maggio 2018, una ventata d'aria fresca ha iniziato a soffiare sulla libertà di stampa... i giornalisti e i media inseriti in una lista nera sono stati in grado di riprendere l’attività (e) l'ambiente generale in cui operano i giornalisti si è notevolmente alleggerito, l'autocensura si è ridotta enormemente e le pubblicazioni del Paese presentano ora opinioni molto più equilibrate tra l'opposizione e la maggioranza”. Una luna di miele interrottasi con la pandemia. Le prima avvisaglie si sono avute dopo un’inchiesta del South China Morning Post sulla condizione dei lavoratori migranti (oltre 5 milioni in Malaysia) e in particolare dopo un articolo - a firma Tashny Sukumaran e Bhavan Jaipragas – che documentava l’arresto violento di centinaia di migranti all’interno di tre dormitori in una “zona rossa” nella capitale Kuala Lumpur il 1 maggio.

In Malaysia, secondo RsF, “l’esecutivo ha ancora un arsenale legislativo assolutamente draconiano per reprimere la libertà di stampa: il Sedition Act del 1948, il Official Secrets Act del 1972, il Press and Publications Act del 1984 e la legge sulle comunicazioni e il multimediale del 1998… che pesano come una spada di Damocle sui giornalisti”. La Malaysia non è per altro l’unico Paese dell’Asia ad aver stretto le maglie della libertà di espressione come ben dimostra il caso della giornalista filippina Maria Ressa: un appello di RsF sul sito dell’organizzazione in suo appoggio ha già quasi raggiunto 10mila firme. In Myanmar, decine di siti internet sono stati chiusi all’inizio di quest’anno con l’accusa di pornografia ma tra questi alcuni erano testate di informazione. Diversi giornalisti infine sono stati incriminati per aver intervistato gruppi guerriglieri definiti terroristi.

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