Penetrazione commerciale, cooperazione e abili relazioni diplomatiche nella pacifica offensiva internazionale a tutto campo dell'Impero di mezzo. Considerazioni saulla nuova lunga marcia di Pechino
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Con qualcosa come 1400 miliardi di dollari di titoli del debito federale americano in mano alle banche cinesi, solo uno sprovveduto avrebbe potuto pensare che i gravissimi fatti del Tibet potessero vedere una qualche forma di fermezza da parte degli Stati Uniti. Ma gli europei, a parte qualche velata minaccia soprattutto francese, non hanno fatto molto di più. La Cina è un grande paese e, per dirla con altre parole, un immenso mercato che, tra l'altro, sta dominando buona parte dell'economia mondiale. Una super potenza con cui bisogna fare i conti.In questi anni i cinesi hanno fatto molti passi avanti senza mai fare il passo più lungo della gamba. Hanno cominciato a tessere una tela di relazioni politiche e commerciali soprattutto in Asia e hanno confucianamente aspettato che gli americani e i russi, i loro più temibili avversari, si gestissero le rispettive gatte da pelare. Con un certo sogghigno Pechino deve aver guardato alla guerra d'Iraq come all'ultimo clamoroso errore dell'amministrazione Bush. Un errore da controbilanciare con una politica “armoniosa” che non esporta la guerra ma beni di consumo, cooperazione civile ai paesi in via di sviluppo e appoggi politici nelle sedi dove è importante avere un padrino nobile. La Birmania ne è stato l'esempio più evidente quando, ancor prima dei tragici incidenti dell'anno scorso, Pechino impedì col veto la risoluzione di condanna che il Consiglio di sicurezza voleva votare contro il regime dei generali.La politica di abile tessitura diplomatica è cominciata in Asia: dall'India innanzi tutto, una potenza emergente con cui i cinesi hanno vissuto una lunga stagione di attrito e persino una piccola guerra di frontiera benché siano stati soprattutto gli indiani a trascinarvela. Poi, alcuni anni fa, la svolta. Passata per il riconoscimento bilaterale dei propri domini: Nuova Delhi, che ospita il governo del Dalai lama in esilio dal 1959, riconosceva ai cinesi la giurisdizione di Pechino sul Tibet. In cambio, la Cina riconosceva i diritti di Nuova Delhi sul Sikkim, la piccola enclave himalayana da sempre contesa. I due colossi si sono anche accordati per far terminare bene l'annosa vicenda nepalese, lavorando ai fianchi sia dell'ex monarca, sia dei partiti costituzionali, sia della stessa guerriglia maoista. Pechino ha poi lavorato con attenzione nel ritagliarsi un sempre maggior ruolo nella geometria in costruzione nata attorno all'Asean, l'associazione dei dieci paesi del Sudest asiatico che si è fatta motore di un'espansione in stile Ue con la costituzione dell'East Asian Summit, un'architettura che prefigura un'ampia area di libero scambio economico e di cooperazione che sarà sempre più politica. E che, oltre a Cina, India e Corea del sud, vede anche la partecipazione di Nuova Zelanda e 'Australia, con cui Pechino è in ottimi rapporti. Infine la gestione della Sco (Shagai Cooperation Organization), un nuovo attore multiregionale il cui futuro è ancora molto da definire ma in cui è ben definito il ruolo di Pechino.Solo con il Giappone e, ovviamente con Taiwan, ci sono state scintille. Ma ben maneggiate dalla capacità dei cinesi di raffreddare lo scontro nella penisola coreana, promuovendo e ospitando il tavolo negoziale a sei che ha portato la pericolosissima tensione prodotta dalla Corea del Nord a sbollire lentamente.Si è dunque aggiudicata anche un punteggio sul piano di una grande capacità negoziale internazionale che le sta permettendo ora di intervenire su altri scacchieri, primo fra tutti la crisi iraniana. Grazie al veto russo e cinese, dirà forse la storia, un'altra guerra nel Golfo è stata (speriamo) scongiurata. Mentre lavorava su questi due fronti - il tavolo asiatico e l'arena internazionale (nella quale ha proposto per la prima volta di fornire proprie truppe nelle operazione di peacekeeping dell'Onu) - i cinesi sono andati alla conquista dei mercati: l'Asia sudorientale e l'India ovviamente, ma anche l'Asia centrale e lo stesso Afghanistan, senza contare i legami già strettissimi col Pakistan che sta costruendo (in un certo senso per i cinesi) il grande porto di Gwadar, uno sbocco sui mari caldi che consentirà a Pechino un'alternativa agli “stretti” della penisola di Malacca, unico accesso per lo smercio dei suoi prodotti e per buona parte del suo approvvigionamento energetico, il nervo più scoperto della Rpc. Infine l'Africa: solo per dare un'idea della sua capacità di penetrazione basterà citare il viaggio di marzo a Pechino del presidente della Nigeria. Accolto con tutti gli onori da Hu Jintao, ha concordato nuovi accordi economici dall'agricoltura, alle infrastrutture, agli scambi culturali. Il petrolio era già stato oggetto di precedenti negoziati. Per fare qualche numero, nel 2000 l'interscambio commerciale con l'Africa era di 11 miliardi di dollari; nel 2006 è diventato di 56. Quintuplicato. Nel 2010 dovrebbe arrivare a 100 miliardi di dollari e in Africa si stimano ad almeno 800 le imprese di stato cinesi attive. Affari e cooperazione, l'altra faccia della Cina che la rende assai più digeribile dell'Europa, molto appannata sullo scenario africano o degli Stati Uniti che si son fatti fama di unilaterali guerrafondai. I cinesi costruiscono strade, ferrovie, aeroporti e alberghi. Chiedendo poco o nulla in cambio. Difficile discutere la loro “armoniosa”penetrazione che finora porta, almeno apparentemente, soprattutto benefici reciproci e non minaccia, semmai allontana, l'ipotesi di nuovo conflitti.Di questa accorta politica ci siamo accorti con molto ritardo salvo poi stupirci della crescita esponenziale del potere cinese che in questi giorni si può leggere nelle dichiarazioni che, soprattuto in Asia, Pechino ha raccolto a favore di come sta trattando – col pugno di ferro - la questione tibetana.
Tratto da http://www.lettera22.it/ e pubblicato anche su La differenza, rivista del progetto Scenari Indipendenti
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