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lunedì 13 ottobre 2008
CIVILI E MILITARI POSSONO DIALOGARE?
Cosa lascia dietro di se' un convegno? Spesso solo la somma dei nodi affrontati dai singoli relatori, più o meno brillanti, più o meno noiosi, più o meno suggestivi. Naturalmente ognuno ne ricava anche una sensazione o ne sceglie un aspetto che non per forza è poi il segno di quell'incontro in quanto tale. Ma a Rovereto ho tratto la convinzione che un passo importante è stato fatto. Un passo che si deve a un'intuizione degli organizzatori (col Museo la Ong Mine Action Italy di Brescia e la S:E:I di Ghedi, un tempo all'avanguardia nella produzione delle mine). L'intuizione è che tre mondi separati (militari, società civile, industria mirata al settore bellico) debbano alla fine parlarsi. Dialogo (im)possibile? Gli organizzatori mi avevano affidato questo tema che non so quanto bene ho affrontato. Ma il fatto che lì si fosse a interrogarsi proprio su questo dialogo già era dialogo. Il che non è poco. Non so, non credo, che il dialogo sia così trasversale da potersi applicare a tutti e tre i segmenti. Francamente i rapporti con l'industria che produce armi credo che rimarranno difficili, almeno per quel che riguarda la società civile italiana, nelle sue più diverse forme. Come ha ben spiegato Francesco Mantovani di Finmeccanica , è il business a informare l'azione di una grande industria e dunque col business – specie nel settore militare – c'è poco da ragionare. L'industria bellica vive di guerra assai più dei militari che, bene o male, benché la guerra la facciano in prima persone, sono anche le persone che, se ben dirette, arrivano anche a far si che si negozi la pace. Vorrei dire per paradosso che pur se la guerra è la ragione d'essere dell'esistenza dei militari, l'industria bellica ha un dannato bisogno della guerra per alimentarsi mentre i militari possono anche configurarsi come i custodi della pace (in qualche caso è avvenuto e avviene).
Nel mondo ideale di un pacifista ragionevole (e mi ci metto anch'io) non ci sono guerre ma i militari – credo – restano. Non per farla la guerra, ma per impedirla. Ma sarebbero militari armati di bastone, come dire, come i policeman di Londra. In un mondo senza guerre, basterebbe infatti poco a impedirle mentre anche nelle paci più o meno durevoli che conosciamo, la preparazione della guerra continua – fosse quella fredda o quelle a termica variabile di oggidì – prevede un'industria che continui a produrre sempre più sofisticati sistemi d'arma. In buona sostanza, se davvero si lavorasse al disarmo, i militari resterebbero ma l'industria della guerra dovrebbe pensare a riconvertirsi pesantemente. Ma questo è un discorso che ci porta lontano e che riserviamo a altro capitolo.
Militari e società civile
A Rovereto si è invece sviluppato un confronto (forse il termine dialogo è ancora prematuro) tra militari e società civile. Molti gli interventi e molti i nodi da sciogliere con per sfondo le nostre missioni di pace ma direi, soprattutto, l'onda lunga, cupa e glaciale della guerra d'Afghanistan (che proprio durante il convegno vedeva ferito l'ennesimo soldato italiano), una guerra finalmente chiamata col suo nome ed evocata proprio attraverso i temi che hanno finora opposto – e ancora opporranno – militari e società civile o almeno quella parte di società civile che alle guerre si oppone (una riflessione interessante potrebbe riguardare l'Ana, l'associazione nazionale alpini, che è anch'essa società civile. E' un'associazione con 450mila associati – come ho imparato in un recente incontro a Cividale del Friuli proprio con loro - e non per forza, come con pregiudizio potremmo considerare, favorevole all'impresa o alla retorica bellica o bellicista).
Il fatto è che la società civile (penso alla rete di Afgana.org o alle Ong che si muovono con difficoltà in Afghanistan, alla rete Link2007 e così via) e i militari italiani che oggi sono in Afghanistan, non si sono finora mai parlati o quasi. Mondi separati che si lanciano strali o che demandano ad altri (i politici) la responsabilità di quanto accade. Ma poi, sul campo, eccoci lì, militari e Ong, a doversi "spartire" un territorio per ora occupato da una gran confusione (e nel quale la politica appare aihmé latitante). Il punto l'ha spiegato assai bene proprio un militare, il generale Battisti che di Afghanistan se ne intende. Ha centrato il nodo quando ha detto che le Ong temono che la cooperazione civile messa in atto dallo stesso attore che un mano dà e con l'altra spara, possa danneggiare il loro lavoro e la percezione della popolazione locale (mi scuso con l'interessato perché lo cito a braccio e conosco la sensibilità dei militari quando si usano le loro parole dal momento che son uomini che si sentono sempre "sotto tiro").
E proprio su questo argomento è forse arrivato il momento di confrontarsi. Non si tratta di una questione di puro "coordinamento" ma della ragion d'essere stessa dei Prt, i team di ricostruzione provinciale ideati dalla Nato e che sono il grande oggetto del contendere. Ma un oggetto del contendere va discusso e affrontato, con rigore e fermezza, cercando la strada per uscire, se sarà mai possibile, da questo punto controverso. C'è chi pensa che non sia possibile, c'è invece chi ritiene che una riflessione che rispetti i ruoli e le specifiche competenze e che, tanto per cominciare, accetti l'altro come controparte, possa trovare la strada corretta e forse addirittura indicare un modello. Ma insomma...
Io credo che a Rovereto il convegno abbia messo in moto un meccanismo bloccato. Anche solo per il fatto che la gente che si conosce ed entra in relazione spezza spesso il pregiudizio che, in alcuni casi, non ci fa neppure parlare assieme o subito giungere a un punto polemico che poi diventa chiusura (è stato uno degli elementi richiamati da Valter Serrentino e che mi è molto piaciuto). Si può andare avanti così, a non parlarsi? Serve (soprattutto agli afgani che si suppone vorremmo aiutare) continuare a testa bassa? E non è questo un dibattito, non solo di portata nazionale, che è ora – con maturità – di affrontare? Ciò non vuol dire recedere dai propri principi. Si tratta però di cominciare a riconoscere (e rispettare) il ruolo dell'attore con cui abbiamo a che fare e di negoziare con lui la via d'uscita possibile. Naturalmente, dice il proverbio, per fare bene una cosa bisogna essere in due a volerla fare. Credo che Rovereto abbia aiutato a mettere le basi.
La contestazione al convegno
Il convegno era naturalmente molto altro e in realtà verteva soprattutto sulla formazione. Ma io sono rimasto colpito da questo aspetto della comunicazione o dell'incomunicabilità. Fuori dal luogo del convegno una gruppo di pacifisti ha contestato l'incontro. Un gruppo che si è firmato nel volantino “Antimilitaristi senza se e senza ma” e che denunciava l'imminente costruzione di una nuova base militare a Mattarello, mi ha accusato di aver violato il principio sacro che coi militari non si parla. Ne abbiamo discusso davanti ai loro striscioni ma non volevano sentir ragioni. Ho rimpianto gli anni Settanta quando i manifestanti chiedevano di entrare o irrompevano nei consessi per dire la loro. Invece no, ancora più lontani del dialogo tra sordi. Eppure continuo a vedere queste manifestazioni come una risorsa. In fondo quei manifestanti volevano ricordare una cosa sacrosanta: che la guerra produce morti. E' la loro lettura che alla fine appare riduttiva. Come se la guerra fosse decisa dai soldati e non dai parlamenti che sono poi l'espressione (inutile dar sempre la colpa ai politici) del voto dei cittadini. Anche questo è un pezzo di strada da fare. E non credo ci si possa limitare a stendere uno striscione. Mi piacerebbe che il messaggio del convegno arrivasse anche a loro.
E in futuro?
La notizia ancora non è ufficiale ma del resto noi giornalisti che ci stiamo a fare?. So che in Libano si sta per costituire una sorta di comitato misto proprio per dirimere le questioni di cui abbiamo parlato. Militari e civili. Non tanto per “coordinarsi” ma per vedere e capire assieme ruoli e competenze in particolare della cooperazione civile. A me pare una buona notizia e spero che la cosa vada avanti. Come spero che anche l'anno prossimo Rovereto torni ad ospitare questo dibattito di cui voglio davvero ringraziare gli organizzatori
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1 commento:
Maddalena - che a Cividale non c'èra - ringrazia!
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