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mercoledì 22 ottobre 2008

PASTICCIACCIO AFGANO



Pasticcio. Palude. Disastro. Fallimento. Ci si può sbizzarrire con i sostantivi per cercare di definire quel che accade in Afghanistan ma persino le parole sembrano avere un limite. Il brutale assassinio di una cooperante (la prima volta nella capitale) e, nello stesso giorno, la morte in seguito di un'autobomba di cinque bambini che erano vicino a una pattuglia di militari tedeschi, sono solo le ultime due cattive notizie che raccontano di un deterioramento non solo della sicurezza ma della guerra stessa. I talebani, o almeno una parte di questa galassia ormai infiltrata da criminali comuni, trafficanti di armi e narcos, stanno tentando il tutto per tutto utilizzando la pratica del terrore e cercando di sfruttare il momento di debolezza e stanchezza che stanno provando le cancellerie occidentali e i contingenti militari inviati sul terreno. La strategia dei raid aerei, con il loro corollario di vittime civili, non ha fatto intanto che peggiorare lo stato delle cose, senza garantire un reale controllo del territorio e semmai aumentando la perdita del consenso della popolazione locale che, fino all'anno scorso, era ancora oltre il 50% ma che sembra scemare vieppiù: se infatti i militari della Nato non riescono a garantire la sicurezza e, inoltre, continuano a collezionare vittime civili, con chi conviene schierarsi?
La svolta a più riprese invocata è rimasta lettera morta, circondata soltanto dagli effetti blandissimi di una ricostruzione mal guidata e di cui, in alcuni casi, hanno beneficiato soprattutto contractor stranieri. Resta dunque questo il problema reale: il vuoto della proposta politica e l'afasia dei parlamenti e dei governi europei cui fa da contraltare un'impasse dell'Amministrazione americana che, in attesa della nuova presidenza – che non pare per altro aver le idee ben chiare sulla questione – continua a limitarsi a invocare una soluzione “irachena” e un aumento di truppe con le quali il demiurgo del “surge” il generale Petraeus, dovrebbe aggiustare ogni cosa.
Il paradosso è che proprio dai vertici militari – da quelli americani a quelli europei passando, dopo le recenti dichiarazioni del generale John Craddock, anche dai vertici della Nato – viene l'indicazione che la guerra non sarà vinta con la sola opzione militare. Ma al momento, né le indicazioni di Craddok, né quelle dello stesso tenore del generale britannico Mark Carleton-Smith, sembrano aver fatto breccia nella politica benché un primo segnale – ma assai controverso nelle reazioni- sia arrivato nei giorni in cui, per la prima volta in forma ufficiale e sotto gli auspici della monarchia saudita, emissari talebani e del governo Karzai si incontravano alla Mecca indicando che è in realtà in corso un processo negoziale.
Quello che manca è dunque un'indicazione chiara da parte della politica e la trasformazione di una serie di nebulose (negoziati con la guerriglia, conferenza di pace internazionale, avvio di un processo negoziato con i paesi che confinano con l'Afghanistan) in dichiarazioni chiare ed efficaci che comincino a disegnare nuovi scenari oltre la guerra e a individuare strategie concordate per uscire dalla palude afgana. Prima che l'impresa si dimostri realmente un disastro e un fallimento.

Questo articolo è stato preparato su richiesta del sito www.agimondo.org

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