Quando nel nostro paese gli episodi di razzismo diventano pane quotidiano, resta poco per consolarsi. Qualche gesto che abbiamo fatto in passato, la firma sotto un appello, la nostra individuale fermezza nel reagire o nel dire ai nostri figli che gli uomini sono tutti uguali...
Una cosa che mi consola è che ci sono esempi luminosi. E che se molti italiani li conoscessero forse cambierebbero idea sugli immigrati nel nostro paese. Oltre l'ideologia quel che funziona è la pratica quotidiana, l'esempio.
Ecco, l'esempio che forse i miei concittadini e connazionali dovrebbe conoscere è quello incarnato dal dottor Arif Oryakhail. Arif è un medico che, dopo innumerevoli peripezie, ha preso la cittadinanza italiana. Ma è un afgano vero, di Paghman, vicino a Kabul. Un pashtun di quelli tutti d'un pezzo (dunque affidabile e serio), pur essendo una persona flessibile e aperta come ne conosco poche. Qualità frutto della sua vivace e fervida intelligenza e accompagnate da una grande ironai che sa persino essere perfida. Arif è arrivato nel nostro paese dopo un lungo peregrinare: inseguito dai mujaheddin “liberatori” che gli volevano fare la pelle (il suo reato è essere laico), ha fatto il medico per molti anni in Pakistan. Soprattutto nei campi profughi al confine col suo paese mentre infuriava la guerra (che non è mai finita). Andava a diagnosticare la tubercolosi che si espandeva a macchia d'olio nei campi degli sfollati, dimenticati da Dio e dalla generosità del mondo, accampati come bestie come più di una volta, su quel lugubre confine, mi è capitato di vedere.
Pensando di andare a trovar lavoro in Germania o in Gran Bretagna, Arif arriva in Italia. Transito, naturalmente. Ma poi, come accade nella vita, un amico o un parente gli dice “dai, resta a Roma...” e lui alla fine ci rimane. Ci mette del bello e del buono ma riesce anche a tornare a fare il medico. E, lavorando e studiando, riesce a farsi riconoscere la laurea specializzandosi in Igiene, materia medica con la quale trova un lavoro all'Ospedale Gemelli della capitale. Un bel giorno, forse quasi casualmente, un medico della Cooperazione italiana lo incontra e gli chiede se non abbia voglia di tornare nel suo paese. In Afghanistan nessuno ha molto desiderio di andarci e Arif inoltre parla la lingua e conosce bene il (suo) paese. E conosce ormai bene anche il nostro. Chi meglio di lui?
E infatti Arif è forse il nostro pezzo migliore in Afghanistan. Cambiano gli ambasciatori e i governi, passano esperti e medici prestati da qualche Asl, ma Arif è un punto fermo. Benché abbia un contratto che si rinnova di quattro mesi in quattro mesi (bizzarrie della nostra burocrazia), è in Afghanistan da anni e, se non ci fosse, bisognerebbe inventarlo. Oltre a far bene il suo lavoro di medico, organizzando la ristrutturazione di ospedali, la distribuzione di farmaci, la formazione di medici afgani, Arif fa anche di più: diventa un validissimo supporto per noi giornalisti che di quel paese sappiamo a spanne storia e cultura. Perde ore a spiegarti perché succede così o si fa cosà. Spreca tempo e conoscenze per favorirti, fare in modo che non ti accada nulla. Raro che dica di no. Anzi impossibile. E mica solo con noi periodisti...lo sanno bene gli italiani di Kabul che, o vanno da Emergency, o vanno da Arif. Lo chiamano per un vomito notturno, per escoriazioni superficiali, per dermatiti e mal di pancia. Qualcuno perché si sente depresso e gli è passato il sonno. Non so se guarisca anche le pene d'amore e le tempeste ormonali, materia difficile, anzi impossibile, persino per i medici...
Senza Arif Oryakhail, medico afghano prestato al Belpaese, cosa sarebbe la nostra cooperazione laggiù? Temo poca cosa. I soldi da soli non bastano.
Sai quanti ne buttano gli americani...Ma gli americani Arif non ce l'hanno. Il dottor Oriakhayl è stimato e conosciuto e ci fa fare bella figura sia con gli afgani sia con gli altri occidentali. Esagero? Può darsi: è un amico e quindi sono di parte, ma adesso voglio tornare al punto iniziale. Arif è afgano, è un immigrato. Ha la pelle un po' scura, baffi prepotenti e, come ogni immigrato che si rispetti, parla un italiano che, a volte, inciampa in una concordanza. Eppure senza di lui l'Italia a Kabul sarebbe una bandierina a cui manca l'asta di sostegno. Cosa ne pensano allora i nostri legiferatori che, se non fosse ormai italiano, gli negherebbero una visita medica – peggio lo denuncerebbero - se lo sapessero senza permesso di soggiorno? Cosa ne penserebbero quelli che ritengono che a fare violenza sulle donne siano solo gli slavi (confondendo i romeni con gli albanesi)? E quelli che a colpi di ronda vorrebbero cacciare chissadove negri, nomadi, e sikh col turbante? Cosa farebbero questi signori se fossero a Kabul e gli venisse la kabulite (mal di pancia), un ascesso al molare destro, il gomito della lavandaia o la gotta? Temo che andrebbero dall'immigrato Arif.
Quando penso al dottor Oriakhayl, pashtun di Paghman, mi sento bene. Mi pare che il mondo vada nel verso giusto e che in fondo, se l'Italia gli ha dato la nazionalità e un buon lavoro, il nostro paese non è poi così malvagio. Il dottor Arif -immigrato – mi fa star meglio col mio paese. Più di tanti concittadini e connazionali. Uno di questi giorni bisogna che glielo dica.
La foto, savasandire, è di Romano Martinis: raffigura il dottor Arif e l'autore del blog. Qual'è dei due il medico afgano e qual'è il giornalista italiano?
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