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martedì 8 settembre 2009

LIBERO MA IN FUGA

Pervez Kambaksh, il giornalista condannato a morte e poi a vent'anni di prigione per aver scaricato dal web materiale sulla condizione femminile, è stato perdonato da Karzai e fatto uscire dall'Afghanistan. Ne ha dato notizia l'Independent, il quotidiano progressista britannico che aveva raccolto per la sua liberazione 100mila firme.

Vittoria sull'oscurantismo? Sui tribunali religiosi che valutano la libertà di stampa sulla congruità della (loro) interpretazione del Corano? Non esattamente. Il giornalista sarebbe stato “perdonato” segretamente dal presidente, che ha diritto di grazia, e fatto segretamente uscire dal carcere qualche giorno fa. Altrettanto segretamente ha lasciato il paese. Salvando capra e cavoli. E non è nemmeno una storia conclusa: Pervez ha famiglia e numerosi fratelli. Che hanno dovuto lasciare la propria casa per sfuggire a minacce e ritorsioni. Potrà rivederli? Certo, se qualcuno li aiuterà a fuggire all'estero. Segretamente.
Era il gennaio del 2008. Maledettamente freddo a Kabul e ancora di più a Balq dove viveva Pervez (Parwiz), professione reporter. Condannato a morte per blasfemia da un tribunale di Mazar-i Sharif per aver scaricato dalla rete documentazione in persiano sulla condizione femminile, gli viene comminata la pena capitale. Si mobilita subito la stampa internazionale ma si danno da fare soprattutto migliaia di afgani cui questa storia non va giù. Immediatamente emergono due aspetti: il primo è che il processo può essere spostato a Kabul e, dunque, la possibilità che una nuova corte lo giudichi fa ben sperare. Anche perché il caso imbarazza il presidente e lo stesso ministro di Giustizia.

Il secondo è che Kambaksh non era uno stinco di santo. Scriveva sulla stampa locale (ma anche su quella internazionale) ciò che pensava: e ciò che pensava non era solo che si dovesse/potesse parlare della condizione femminile, quanto che andassero denunciate le storture del suo paese. Aveva nemici Pervez: i soliti noti. Signorotti della guerra locali con le mani in pasta nei traffici che un conflitto offre a chi ha già un po' di potere. L'operazione della sua condanna diventa dunque molto più laica di quanto non sembri.
Proprio qualche mese prima della sua vicenda siamo a Pul-i-Khumri, una città commerciale della provincia di Baghlan, poco distante di Balq dove siamo appena passati qualche giorno prima. Incontriamo i giornalisti del posto di piccole emittenti e quotidiani locali, che lavorano in mircostudi dove, con consolle d'antan, mandano in onda programmi radio. Hanno paura, ci mettono in guardia. Il pericolo non sono solo i talebani. Il pericolo, per la stampa indipendente sono le pressioni dei signorotti locali, a volte alleati con la guerriglia ma molto più spesso col governo. Una mafia. Si discute in quei mesi della nuova legge sulla stampa. C'è aria di bavaglio. E dove non arriva il bavaglio, per molti c'è la pistola, le botte, minacce, intimidazioni. Questo è il clima. Pungente come quel dannato inverno...

Nel febbraio 2008 per Pervez si apre uno spiraglio. Una nota del senato afgano sfiducia le dichiarazioni del suo presidente, Sibghatullah Mojaddedi, che qualche giorno prima aveva dato il suo sostegno alla condanna a morte del giovane di Balq. Ma le speranze,anche se dure a morire, si infrangono sulle torture che Pervez deve sopportare per ammettere un reato che non ha commesso: aver interrotto le lezioni all'università per discutere della questione di genere. Ma Kambaksh è anche un osso duro e al processo d'appello, a Kabul nel maggio di un anno, fa lo racconta. La pena capitale viene commutata in vent'anni di carcere. Il resto è storia di oggi.

Lieto fine? Si certo, almeno per Pervez. Ma, anche se meno noto di Rushdie o Saviano, la sua vita è intanto quella di un uomo che rischia di essere ucciso. Poi c'è la sua famiglia che lo stesso rischio sta correndo. Suo fratello, ad esempio, un ragazzo che è venuto a testimoniare con grande coraggio la vicenda di Pervez anche nel nostro paese. Fine amaro dunque, in un paese dove convivono forze opposte, dove il caso Kambaksh non è certo l'unico e dove il parlamento ha passato una legge di amnistia che lava i peccati dei signori della guerra. Ancora attivi.

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