Il posto non è esattamente dei più sicuri perché l'affaccio è sulla via che porta al ministero degli Interni. Ma il dicastero ha già subito talmente tanti attentati ed è circondato da un vero e proprio muro di cinta di uomini e cemento, che dev'essere ormai un target escluso dai talebani. Inoltre i loro razzi privilegiano la parte Sud della città o la “zona verde” delle ambasciate e dell'Head Quarter di Isaf così che tutto sommato il posto è tranquillo. E all'angolo con chicken street, la via dei fricchettoni anni Settanta dove oggi si compra un po' di antiquariato e qualche gilet o pakol un po' più caro che al bazar. L'impianto marmoreo dell'albergo, che vira dal rosso al marrone, sfoggia un certo lusso subito mitigato da stanzette un po' anguste e che hanno sempre qualche problema di illuminazione. Ma questo succede ovunque a Kabul. Internet ha una buona connessione e tanto basta e il generatore garantisce un flusso costante di corrente.. La vista non è male e la cucina, adattata al gusto occidentale (pasta with meatball, patate e pollo fritto), anche se non può concorrere con Gualtiero Marchesi, è dotata se non altro di un gentilissimo cuoco - Hussain, un ex insegnante di geografia - che prepara un ottimo te verde.
Benvenuti al Mustafa Hotel, l'albergo dove vanno i free lance, i giornalisti di serie B a cui nessuno paga una suite al Serena, per altro uno degli alberghi più pericolosi in città. Con camere che possono scendere a 25 dollari a notte e salire a 40 in tempi di grassa, il Mustafa è l'alternativa più economica della capitale con il pregio di essere in pieno centro, avere una buona connessione e l'abitudine a trattare con giornalisti che hanno esigenze ridotte: cambiare una presa, utilizzare un taxi esente da sequestri, trovare un interprete. In questi giorni è semi vuoto. Dopo l'insediamento di Karzai il 19 novembre la già ridotta schiera di inviati è ripartita, in gran parte sugli aerei di stato al seguito di questo o quel premier. Per due giorni, giovedi e venerdi, la città era svuotata persino della sua gente. Un po' per i divieti di circolazione, rigidissimi giovedi nel giorno della proclamazione del nuovo presidente, un po' forse perché i kabulini si aspettavano un botto che, fino ad ora – le 7 del mattino di sabato – non si è verificato. La vita ha ripreso a correre e anima felicemente il primo sole che batte sule finestre del Mustafa dove ho il raro lusso di una camera con bagno e Tv ai piani alti. Dal lounge del ristorante, accogliente e pulito con un soffitto a specchietti di chiara impronta kitchpachistana, vedo il nuovo mega ospedale costruito a tempo record dai cinesi e che sta proprio sotto la collina di Ko-e-televisiun, come la chiamano qui: la montagna della Tv per via di una selva di antenne che la sovrasta.
Appena sotto la città continua ad allargarsi inerpicandosi sui pendii scoscesi dei monti che circondano la capitale. Pare abbia raggiunto e probabilmente superato i quattro milioni di abitanti. Come ai tempi dei sovietici, resta un polo di attrazione per chi scappa dalla guerra. Già, la guerra, la guerra maledetta che qui si vede poco. Non fosse che per le migliaia di soldati (tutti afgani) che pattugliano ogni crocevia del centro. Per quelle centinaia di bastioni di cemento armato che oscurano i palazzi, vietano gli ingressi, ingombrano – inglobando ogni giono qualche metro quadro di suolo pubblico – le strade. Nessuno paga per questa occupazione abusiva ed evidente. Ognuno fa come gli pare specie se è occidentale. Gli afgani, si dice, mugugnano e protestano. Gli afgani? Ma chi ha mai chiesto il loro parere?
Benvenuti a Kabul, sull'ingresso del Mustafa c'è solo una guardia sonnecchiosa in questo gelido mattino d'inverno. E mi stanno portando la colazione.
Nella foto di R. Martinis una chiakana con servizio ristorante al bivio per la valle del Panjshir
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