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lunedì 3 marzo 2014

Avviso ai naviganti

Mi perdoneranno i miei lettori se in questi ultimi giorni ho dedicato molto spazio al Pakistan. Mi sembrava necessario e credo che la vicenda sia da seguire con attenzione perché, o siamo alla viglia di una nuova guerra regionale, o forse si apre qualche spiraglio per risolverla pacificamente.
Ciò ha e avrebbe notevole ricaduta sulle cose afgane, su cui mi riprometto di aggiornarvi nei prossimi giorni visto che sono in partenza per Kabul col fidato collega Alessandro De Pascale, reduce da una lunga fatica editoriale per Castelvecchi molto italian, dal titolo "La compravendita" (lettura consigliata agli appassionati del Cavaliere).

venerdì 2 settembre 2011

PIOGGIA E LUSTRASCARPE

A Kabul piove raramente e per poco tempo. Ma arrivando ieri mattina all'aeroporto, il terreno era già bagnato e la pioggia è andata avanti tutto il giorno. Noiosa e insistente, sufficiente per rendere la città un pantano. A esser cinici si potrebbe dire che, se questa capitale ha un problema, riguarda le scarpe (di cui ho già ampiamente parlato): perennemente impolverate se è secco.
Dannatamente infangate se piove. Così che la lucentezza di una scarpa è in grado di dirvi, più della fattura o della qualità del cuoio, se chi la calza è una persona importante. E ciò spiega anche perché i lustrascarpe hanno davvero un senso in questa città di cinque milioni di abitanti dove manca l'acqua potabile, lo smog ferisce l'aria teoricamente purissima dell'Hindukush, le fogne corrono a cielo aperto fino a un fiume talmente sporco e maleodorante da essere la perfetta icona del degrado ambientale in cui versa Kabul. Manca tutto ma non la spazzola per scarpe.

La pioggia si accompagna alla fine di Eid, la festa che conclude il Ramadan e che si celebra con grandi libagioni e con piacevolissime strade sgombre: code ridotte, smog e polvere, già assopiti dall'acqua
piovana, che riducono oggi la loro perversa pressione sui polmoni dei cittadini della capitale.

Ma c'è altro che sta come in sospensione. Che aleggia silenzioso, che va e viene tra indiscrezioni, mezze parole, rumor. A pochi mesi dalla riunione che si prepara in Germania a dieci anni dalla Conferenza di Bonn che, nel 2001, aprì la strada al “nuovo Afghanistan”, la domanda vera è su quel che sta succedendo del processo di pace. Proprio per la festa di Eid, mullah Omar ha chiarito che a Bonn non ci andrà e dunque perdete ogni speranza o voi che ci contavate (gli europei). Karzai dal canto suo non sa bene come metterla. Le ultime indiscrezioni dicono che, durante la sua visita a Riad settimana scorsa, erano nella capitale saudita anche alcuni esponenti talebani. Ma pare sia stata solo contiguità, favorita dai sauditi, e che non ci sia stato nessun incontro. Nemmeno il tempo di guardarsi la punta delle scarpe.

mercoledì 10 novembre 2010

RITORNO A WAZIR AKHBAR KHAN


La strada è polverosa. C'è un vento gelido che scende alle cinque dalle montagne e di notte va a meno 4. Ma di giorno si sale a venti gradi e si respira un'aria mefitica di polvere e gas di carbone appena mitigata dai refoli ghiacciati e intonsi che arrivano dall'Hindukush. Ma sono di nuovo qui. E per domani ho in serbo una sorpresa se vorrete seguirmi...

lunedì 11 ottobre 2010

A KABUL CON 60 EURO AL GIORNO


Il mio prossimo libro, se qualche editore fosse interessato, potrebbe intitolarsi “Stare a Kabul per 60 euro al giorno (e 30 nel resto del Paese)”, scimmiottando quei bestseller dei ruggenti Settanta che qualcuno di voi ricorderà: “How to travel in Asia for one dollar a day” (se la memoria non mi tradisce) con la versione per ricchi “How to….for 3”. Più che altro, quando sono in giro, abitudine inveterata da fricchettone, cerco sempre di farmi un’idea di quanto costa davvero la vita dei locali. Se mai qualcosa di quanto scrivo passera’ alla Storia, beneficio immortale che ogni giornalista si augura, penso che saranno queste piccolo note sul costo dei ristoranti o delle pannocchie che verranno magari utilizzati da qualche storico dell'economia in una nota a commento delle statistiche, spesso farlocche, dei ministeri del Tesoro.

Le pannocchie (jowari) abbiamo appurato che costano 10 afghanis, stesso prezzoo per due pezzi di cocco. Uguale, credo, per patatine fritte (e si, si vendono fried potatoes come in Gran Bretagna ma senza fish) o il piattino di ceci che si comprano sempre per strada. Trenta af per un succo di carote. Questa è roba da straccioni ma se ci mettete un albergo da 30 dollari, un pasto da 4 e qualche pannocchietta, state sopravvivendo addirittura con meno di 40. Ci scappa anche un pakol per un regalino.

Ora se siete una persona appena benestante potete invece permettervi un albergo da 55 dollari a notte (prezzo medio di categoria equivalente a un tre, quattro stelle che può non comprendere Internet e la cena) e aggiungere altri dieci, quindici dollari per pranzo e cena e altri dieci ancora per il taxi. Siamo a 80 dollari. Metteteci anche la birretta all'Atmosphere e sono altri 10. Siamo a 90 dollari che al cambio odierno (1 euro contro 1,38 dollari) vi è costato 60 euro al giorno. E vi assicuro che siete dei signori e non vi manca nulla.

Ce n'è dunque per tutte le tasche. Ecco, il taxi ad esempio. Scordatevi di pagare una corsa come un afgano. Ma se il taxi per stranieri (c'è ovviamente una save company) vi chiede tre dollari, grosso modo la corsa per noi stranieri (diciamo da Wazir Akbar Khan a Taimani) ne vale due anche se i taxisti vi chiedono di partenza almeno il doppio. Infine, come ovunque, ci sono i privati – giornalisti, avvocati, sfaccendati – che nelle ore libere fanno i taxi privati. Con due dollari attraversate la città. Abbiam preso anche quelli, ma solo in compagnia di locali.E comunque a volte è meglio andare a piedi. In certe ore si “cammina” (come dicono i taxisti di Roma) a passo di lumaca.

Ora, direte voi, ma non sarà pericoloso andare a mangiare nei bistrot locali e prendere in taxi unsave? La risposta è no. In un traffico come quello di Kabul, un sequestro è impensabile. Siete in coda e il tipo vi dice “alto le mani!”. Bhe, voi aprite la portiera, scendete e lo fate arrestare nella città con la più alta densità di militari del mondo. Più dei semafori (pochi per altro). Ora, argomenterete, e di notte, dopo l'Atmosphere? Certo, di notte è bene essere prudenti. Ma l'altra sera che stavamo obbligatoriamente tornando in albergo a piedi (la strada che porta alla nostra ambasciata è chiusa ai taxi), ci si è affiancata un'auto civile dove un gentile signore ben rasato col rigonfiamento d'ordinanza sotto al giacca che ci ha chiesto se volevamo un passaggio. Il fatto è che eravamo a lato di Camp Heggers, un'area dove pare si siano dilettati con l'uso della tortura, chissà forse era proprio una di quelle gentili teste rasate. “No grazie”, abbiamo detto. Forse è meglio continuare a piedi.

venerdì 23 luglio 2010

PARLAR MALE DI GARIBALDI


In questi giorni sono sotto tiro sul blog di Riccardo Chiaberge (sulla webzine de Il Fatto quotidiano) per il capitolo su Emergency del mio “Diario da Kabul”. Molti nemici molto onore, verrebbe da dire, oppure anche “tutta pubblicità”, ma a me viene anche una gran tristezza. Se parli male di Garibaldi (che come è noto lasciò Bixio, per una nobile causa, sparare sui contadini), pochi entrano nel merito e pochi leggono il libro perché ormai sono certi del mio tradimento. Indebolisco il fronte, ha scritto un blogger. Ma quale? Un'altra persona dice che dovrei sciacquarmi la bocca se parlo di Gino Strada. Lo faccio ogni sera prima di coricarmi. Un altro ancora dice che, se fossi un giornalista serio, dovrei fare un'inchiesta sulla chiusura di Lashkargah, ignorando che il mio capitolo su Emergency è un'inchiesta sulla chiusura che arriva...alle stesse conclusioni del lettore che mi critica (tesi che invece Emergency contesta, probabilmente a ragion veduta, e prima o poi ne darò conto). Pochi entrano nel cuore del problema. Tra chi lo fa, ne vien sollevato uno grosso come il mondo che mi trova d'accordo: le Ong sono costrette alla denuncia da un giornalismo cieco. Giustissimo. Peccato che “Diario da Kabul” sia proprio un tentativo di andar oltre le veline.

Il fatto è che se volete andar oltre le veline scoprite a volte, da giornalisti, verità scomode. Anche per le vostre radicate convinzioni. Quando nel 2001 si stava preparando Enduring Freedom, scrissi per Carta un articolo dal titolo “Non bombardate l'Afghanistan!”. Lo penso ancora: fu un errore gravissimo e gravido di conseguenze. Andai dunque per la prima volta a Kabul nel 2007 convinto convintissimo che gli afgani fossero contrari contrarissimi alle truppe straniere. Che sorpresa incontrare gli afgani che invece (illudendosi, certo) pensavano che la nostra presenza in armi fosse un bene... Io blateravo di peacekeeping e Onu (e ancora lo faccio) e loro: “L'Onu? Per farci difendere come fu difesa Srebrenica”? Preferivano la Nato.

Quella fu la prima sberla e inoltre scrivevo per il manifesto, giornale contrario alla guerra (come me) e favorevole alla pace (come me). Ma ebbi l'onestà, e il giornale ebbe il coraggio di pubblicami, di dire che molti afgani (i sondaggi lo confermavano) erano contrari al modo e al comportamento delle truppe ma non alla loro presenza. “Se ve ne andate – dicevano – sarà il diluvio”. Adesso è molto diverso e le cose sono cambiate anche in questo senso, Ma allora era così, anche se i primi segnali di malessere, per chi li voleva vedere (e ne demmo conto) già si vedevano.

Vidi anche l'ottimo lavoro di Emergency ma percepii pure che qualcosa di storto c'era, che qualcosa non andava. Stavano fuori dal sistema sanitario nazionale e questo a me non piaceva. Ma era un opinione e non ne scrissi mai. Solo i fatti, e fine. In un libro però, o sul proprio blog, l'opinione non solo va formulata ma vi trova un posto naturale. I libri servono a dare chiavi di lettura non notizie. A quelle pensiamo da cronisti. Neri libri ragioniamo. Ora, chi vuol ragionare, è benvenuto. Ma a quelli del partito preso, da qualsiasi parte stiano, dico di girarmi alla larga. Ne ho conosciuti troppi a cui pace il sacrifico in nome dell'ideale. Piace loro così tanto che son pronti a fare a fette chi disturba il manovratore. E, in tutto questo, mi spiace per Gino Strada. Spero che a lui il mio libro sia servito a ragionare e che gli piaccia aver intorno non solo supporter adulanti. Gli amici veri son quelli che la raccontano tutta, anche quando è scomoda.

mercoledì 21 luglio 2010

EBBENE SI, SONO CATTIVO

"Emanuele Giordana è parte di quel variegato e vampiresco mondo di associazioni, organizzazioni non governative, ricercatori, accademici, giornalisti e operatori della comunicazione impegnati “nell’area afgana per la risoluzione dei conflitti”, cioè truppe civili di complemento nelle operazioni di predazione internazionale, flatulenze embedded dei criminali in divisa, spie di terza fila.... un giornalista-studioso-cooperante dichiaratamente a favore dell’intervento militare in Afganistan in salsa Isaf-Nato che si adopera nell’azione di pacificazione e ricostruzione di concerto con il democraticamente eletto governo Karzai e quelli che altrettanto democraticamente eletti che ci sono toccati in sorte alla guida dei nostri dicasteri degli Esteri e della Difesa"

Se la misura della propria notorietà è il numero di nemici, in una sola giornata me ne son fatti parecchi, tra cui questo signor Luigi che deve conoscermi assai poco. Il merito è di un post di Riccardo Chiaberge sul suo blog sul sito de Il Fatto dove ha recensito il mio recente libretto "Diario da Kabul" citando soprattutto il capitolo su Emergency. I lettori del suo post il libro non l'hanno letto e temo ne abbiano tratto delle frettolose conclusioni. La maggior parte ha risposto a Chiaberge con rabbia, taluni con livore. Altri ancora, come il signor Luigi, con offese che ne denotano una salda ignoranza perché, fortunatamente, tutto ciò che scrivo e ho scritto sull'Afghanistan è facilmente rintracciabile. Ma questo Luigi, come tanti assai più pacifisti di me, mi fanno una certa impressione. Altri mi hanno criticato con durezza ma non con violenza. Luigi si: un uomo di pace e contro la guerra che però vorrebbe vedermi appeso a Piazza Loreto perché - come scrive Chiaberge - ho parlato male di Garibaldi.

Nessuno è perfetto. tanto meno io ma mi si può augurare la morte per dissanguamento se capisco pena la sua contorta prosa? "Prendere le distanze da Emergency non serve, la risultante complessiva è un indebolimento delle capacità di suzione di sangue umano, che porterà presto alla loro dissoluzione, e primo fra tutti quel pezzo di “giornalista onesto” amico di Chiaberghe".

Ho scritto un post per il blog di Chiaberge rispondendo ad alcuni lettori (non certo al mio macellaio) e mi spiace se la recensione al mio Diario gli ha arrecato danno in qualche modo. A me no: mi fa pubblicità. Spero infatti che i livorosi vadano a comprare il mio libro se non altro per vedere quanto sono filo Isaf/Nato. Purtoppo a noi spie di terza fila pagano un basso salario. Ci tocca scrivere libri per campare. E se anche Luigi lo comprasse...sarebbe uno in più.

sabato 17 luglio 2010

ASPETTANDO LA CONFERENZA

L'ospite, anche il più amato, è come il pesce: puzza dopo tre giorni. Quanto puzza dopo nove anni un esercito sempre meno “ospite” desiderato?
All'aeroporto un giocatore della nazionale di cricket, che sta rientrando dall'estero e che non ha certo l'aria del filo talebano in quel vestito di fresco lana dal taglio ineccepibilmente europeo, si lascia andare a un commento che sa di dietrologia: “Gli americani non vogliono mollare l'Afghanistan. Non se ne andranno. Bombardano le nostre case e la guerra gli va bene com'è. Se se ne andassero sapremmo come metterci d'accordo”. Perché restano gli americani? Non sa dirlo, ma nelle sue parole, chiamiamolo Nizar, si percepisce un'insofferenza per l'occupazione che sta montando tra gli afgani e fa il gioco dei talebani, non certo degli ospiti.

Un'analista afgano ha scritto che se gli americani, anziché tentennare sulle date dell'exit strategy, dicessero chiaramente quando e in quanto tempo se ne andranno, tutto sarebbe più facile. I talebani, ha scritto su un quotidiano del Golfo, si sentirebbero rassicurati sul fatto che la loro prima pre condizione – l'abbandono del paese da parte degli occupanti – sarebbe stata assolta e si siederebbero a trattare. Ma qui sta il punto: gli Usa ritengono che non si possa trattare coi talebani se non da una “posizione di forza” e Obama sembra prigioniero dei generali più rapaci e dei repubblicani che gli hanno rimproverato di aver dato il 2011 come data di inizio del ritiro. Così, è stato il coro, dai le coordinate al nemico che aspetterà quel giorno per marciare su Kabul...

Continua su Lettera22

IL MESTIERACCIO DELL INVIATO

Brutta bestia il mestiere dell'inviato! Del resto si potrebbe anche dire, nel mio caso, che nessuno me lo ha chiesto di venire sin qui dove, davanti alla finestra del mio balcone, campeggiano una quarantina di sacchetti di sabbia e sotto, alla porta di ingresso, ci sono un paio di Ak47 che, sommati a quelli nella via antistante il mio albergo, fa una densità di armi a metro quadro che mi dà allo stomaco.

Ma la passione non smette di bussare al cuore di un mestiere che continua a piacermi e che, all'estero, mi riempie di adrenalina, appena un po' meno di qualche anno fa quando, un po' più ansioso e smanioso, il solo varcare l'uscita dell'aeroporto mi faceva fremere come un'amante alla sua prima uscita con la donna di cui si è invaghito.

Come nei grandi amori, col tempo, la passione forse si raffredda un po' ma non si spegne. Controllate il vostro taccuino, se avete la penna e il telefono carico, due spicci in tasca e le pile nel registratore. E via, per la città dolente in cerca di notizie. Il bello è che, girato l'angolo, ne trovate subito una. Il caso gioca la sua parte assai più del fiuto e poi c'è la curiosità, l'annotazione silenziosa di quell'immagine, la frase carpita per strada, la battuta rivelatrice. Elettrizzati, correte di qua e di là fino a che, ma ci son due ore e mezza di vantaggio sul fuso orario italiano, non viene il momento di scrivere, di ordinare le idee e metterle in file, di coniugare le notizie con l'analisi e, soprattutto, il buon senso, l'unico porto sicuro nella mare di fesserie che la propaganda vi propina quotidianamente in una paese in guerra.

Ma la vostra personale battaglia, subito dopo, è con Roma o con Milano. Con i desk dei giornali da cui dipende (ormai sempre di meno) parte del vostro salario. Con i capiservizio che, poveretti anche loro, devono fare i conti con la maledizione delle notizie e che oggi, per voi, non hanno spazio.

Da che sono a Kabul, il meglio di quel che ho scritto giace nel cassetto di qualche redazione. Se non avessi un blog dove rovesciare la mia logorroica esposizione dei fatti finirei per implodere. Per un giornalista, scrivere è come la caccia per la leonessa. Ma vedersi pubblicare il pezzo è il vero trofeo che portate a casa. L'orgasmo della vostra masturbazione intellettuale o del rapporto, intimissimo, che si è stabilito tra voi e la realtà. Come la leonessa però, avete vinto solo se il pezzo va in pagina, così come lei, dopo la corsa, può pascersi delle carni della bestia che ha catturato. Così restate frustrati se non accade nulla, se la vostra notizia (la “vostra” notizia non quella ricopiata dalle agenzie) non trova spazio e, come si dice in gergo, si brucia. Come una sigaretta che non viene aspirata ma si consuma sottoposta alle leggi della chimica.

Ieri però hanno ferito tre poveri cristi con la divisa italiana nell'Herat e allora tutti si svegliano. Ti chiamano, vogliono il pezzo di giornata anche se tu sei a Kabul, non a Herat. Non hai visto niente e ne sai meno di un collega che, stando in Italia, può parlare con lo stato maggiore e carpire qualche dettaglio. Poveri soldati. Poveri giornalisti. Attori entrambi di un teatrino demenziale. Io ci ricavo però che i miei pezzi nel cassetto usciranno d'appoggio alla cronaca di giornata. Che grazie a Dio ieri ha fatto qualcun altro

martedì 6 luglio 2010

IL GIORNALISTA E IL MILITANTE



Non sono tra quelli che pensano che il giornalismo sia una missione. Né (più) tra coloro che pensano che bisogna educare le masse. E quando scorgo la paternale o intravedo, tra le righe, una dotta morale, cambio articolo (a meno che non sia dichiaratamente un commento con quel registro). La militanza, il paraocchi ideologico, la realtà piegata ai nostri convincimenti, è sempre dietro l'angolo e bisogna fare, in questo mestiere, molta attenzione. Non c'è solo il rischio del bel raccontare che, per esigenze di copione e di scorrimento del testo, indugia su qualche pennelata di troppo. C'è il rischio di raccontare, più di quel che vediamo, ciò che pensiamo. In parte è inevitabile (siamo, dice il mio amico Attilio Scarpellini, indipendenti da tutto fuor che dalla nostra testa) ma è davvero bene fare attenzione. Come dice Albert Londres, beniamino e icona di Lettera22, l'unica linea che un giornalista è tenuto a seguire “è quella ferroviaria”.

Ciò però non significa stare in disparte, non schierarsi, non militare. Siamo giornalisti ma anche cittadini e, in queste ore, giornalisti-cittadini minacciati da una legge bavaglio, anticamera di altre che verranno, se questa non fermiamo. Dobbiamo difenderci perché i giornali non diventino sempre più la spazzatura che in parte già abbiamo sotto gli occhi: notizie fabbricate dagli uffici stampa, veline apodittiche, costume e società come se piovesse, indugiando al voyeurismo e alla superficie. Chiedo dunque scusa ai miei lettori se il blog è, da qualche settimana, così prepotentemente schierato. Militante. Ma spero che capirete. C'è un tempo per raccontare ma uno anche per alzare la testa, tener la schiena dritta e, se occorre, gridare. Ci siamo esposti con un appello in Rete (la giornata del “silenzio attivo” del 9), abbiam fatto riunioni e manifestazioni. Complottato benevolmente per il bene comune: il nostro lavoro, la vostra lettura. Ma....

Tra qualche giorno tornerò a Kabul. Per il mio dannatissimo e bellissimo lavoro e un paio di altre cose in più che vi riprometto di raccontare. Riprenderò il mio Diario, affidato a questa navicella telematica, per raccontare, forse prima di tutto a me stesso, quella guerra schifosa, i suoi morti, le sofferenze e le speranze. Ogni volta che vado in Afghanistan, gran parte delle mie convinzioni, formulate a Roma, al desk della mia redazione, vanno in pezzi. E la lezione di Londres, la linea ferroviaria, torna di attualità. Abbiate dunque ancora qualche giorno di pazienza. E seguitemi se vorrete. Vi porterò sulle vette dell'Hindukush dove la natura umana sta dando il peggio di sé. Ma sicuramente, per alcuni, anche il meglio possibile

martedì 15 giugno 2010

IL DIARIO DA KABUL DA ESC, A ROMA VENERDI 18 /6

Venerdì 18 giugno @ Esc Atelier Autogestito

Nell'ambito della Campagna "Indietro non si torna"

Diario da Kabul


h. 19.00

Presentazione del libro “Diario da Kabul – Appunti da una città sulla lineadel fronte”

(ed. O Barra O)

Partecipano:

Emanuele Giordana (Lettera22, Radio3)

Giuliano Battiston (giornalista Freelance, inviato in Afghanistan)

Silvana Pepe (Rainews 24)

venerdì 11 giugno 2010

DIARIO DA KABUL, LA PRESENTAZIONE A MILANO IL 15/6/10


Martedì 15 giugno

ore 21.00

Libreria Utopia di Milano

Via Moscova

Emanuele Giordana presenta Diario da Kabul. Appunti da una città sulla linea del fronte (O barra O edizioni)

Ne parlano con l'autore

Elisa Giunchi e Gianni Rufini

lunedì 24 maggio 2010

IL MIO DIARIO DA KABUL

Un libro edito da ObarraO da oggi in libreria e che presento alla Libreria Azalai di Milano (via G. Mora) stasera alle 21 con l'aiuto di Sergio Baratelli. Ecco come inizia:

Questa raccolta di racconti, in buona parte ricostruiti assemblando ad articoli e reportage dall'Afghanistan le riflessioni personali affidate al mio blog, è diviso in due sezioni: Noi e l'Afghanistan e L'Afghanistan e noi. La chiave è tutta qui. Anche quando ci sforziamo di raccontare gli altri, finiamo sempre per parlare di noi, il che è forse inevitabile. Ecco perché ho scelto di iniziare con gli ambienti in cui ci muoviamo e con lo scenario a noi inviati più congeniale: il locale notturno, dove ritrovare colleghi e gente della “nostra razza”, il conforto degli alcolici rigorosamente vietati in Afghanistan, i racconti che servono a dare una marcia in più ai nostri pezzi. Anche il più critico fra noi ci casca. Parliamo di un paese e finiamo a vederlo sempre con gli stessi occhiali, non importa se calcati sui nostri bulbi oculari, su quelli di un diplomatico o di un cooperante. Gli afgani sono altro, lontani da noi, anche quando cerchiamo di raccontarli con la miglior intenzione del mondo. E poiché, inevitabilmente, tutto ciò falsa e sbilancia la lettura della realtà, è giusto avvertire il lettore che, per tale motivo, questo libretto è un racconto assai poco obiettivo. E' anzi smaccatamente sbilanciato. Non è un libro che spiega la guerra ma solo il tentativo di raccontarla da un'altra angolazione, dalla parte degli afgani. Per arrivare alla conclusione che è un'impresa impossibile.

giovedì 7 gennaio 2010

PASSEGGIANDO A KABUL

Fare una passeggiata a Kabul o a Herat non è solo una maniera di vincere la paura e, in un certo senso, l'oppressione della guerra. E' un modo per riappropriarsi della città.


Kabul ha oggi 4 milioni di abitanti. Era una tranquilla capitale con 400mila residenti quando - incontrata la prima volta negli anni Settanta – ospitava già molti occidentali. Ma non erano soldati della Nato in mimetica e occhiali a specchio bensì un'altrettanto variegata truppa di svedesi, francesi, britannici coi capelli lunghi e le gonne colorate. Senza mitraglietta a tracolla.
Adesso la città è stretta in una sorta di morsa ossessionate di paura. Almeno per noi. C'è un divieto non scritto ma fortemente raccomandato perché non si esca di casa e soprattutto non si passeggi: rischio attentati, sequestri, mine disseminate sulle strade...Eppure

Come ovunque bisogna avere una guida. Una persona che interpreta i segni sottili che persino i muri sanno restituire. Una volta un amico afgano ci ha spiegato che, durante la cacciata dell'ultimo governo filosovietico di Kabul negli anni Ottanta, si poteva capire da un certo modo di tenere semichiuso un negozio o di appoggiare una tenda alle finestre se sarebbe o meno successo qualcosa: “Se il panettiere chiudeva il suo negozio – bugigattoli dove i fornai appollaiati su stuoie di canapa infilano nei forni incastonati nel pavimento lunghi pani piatti che, appoggiati alle pareti infocate, vengono recuperati cotti con dei bizzarri uncini– potevi star certo che i mujaheddin stavano preparando l'attacco”.
Questa volta la guida è Jolyon Leslie, sudafricano di origine e a lungo responsabile dell'Ufficio Onu di Kabul in anni difficili e persino durante i talebani. Oggi lavora per l'Aga Khan Foundation, responsabile delle migliori opere di ristrutturazione e conservazione di buona parte dei centri storici di Kabul ed Herat...(continua su Lettera22)

Questo reportage è uscito sul numero 25 della rivista Abitare la terra

Nella foto di Romano Martinis (che illustra il reportage) J. Leslie ed E. Giordana nell'ufficio del'Aga Khan Foundation a Kabul

sabato 21 novembre 2009

DIARIO DA KABUL, BENEVENUTI AL MUSTAFA

Il posto non è esattamente dei più sicuri perché l'affaccio è sulla via che porta al ministero degli Interni. Ma il dicastero ha già subito talmente tanti attentati ed è circondato da un vero e proprio muro di cinta di uomini e cemento, che dev'essere ormai un target escluso dai talebani. Inoltre i loro razzi privilegiano la parte Sud della città o la “zona verde” delle ambasciate e dell'Head Quarter di Isaf così che tutto sommato il posto è tranquillo. E all'angolo con chicken street, la via dei fricchettoni anni Settanta dove oggi si compra un po' di antiquariato e qualche gilet o pakol un po' più caro che al bazar. L'impianto marmoreo dell'albergo, che vira dal rosso al marrone, sfoggia un certo lusso subito mitigato da stanzette un po' anguste e che hanno sempre qualche problema di illuminazione. Ma questo succede ovunque a Kabul. Internet ha una buona connessione e tanto basta e il generatore garantisce un flusso costante di corrente.. La vista non è male e la cucina, adattata al gusto occidentale (pasta with meatball, patate e pollo fritto), anche se non può concorrere con Gualtiero Marchesi, è dotata se non altro di un gentilissimo cuoco - Hussain, un ex insegnante di geografia - che prepara un ottimo te verde.

Benvenuti al Mustafa Hotel, l'albergo dove vanno i free lance, i giornalisti di serie B a cui nessuno paga una suite al Serena, per altro uno degli alberghi più pericolosi in città. Con camere che possono scendere a 25 dollari a notte e salire a 40 in tempi di grassa, il Mustafa è l'alternativa più economica della capitale con il pregio di essere in pieno centro, avere una buona connessione e l'abitudine a trattare con giornalisti che hanno esigenze ridotte: cambiare una presa, utilizzare un taxi esente da sequestri, trovare un interprete. In questi giorni è semi vuoto. Dopo l'insediamento di Karzai il 19 novembre la già ridotta schiera di inviati è ripartita, in gran parte sugli aerei di stato al seguito di questo o quel premier. Per due giorni, giovedi e venerdi, la città era svuotata persino della sua gente. Un po' per i divieti di circolazione, rigidissimi giovedi nel giorno della proclamazione del nuovo presidente, un po' forse perché i kabulini si aspettavano un botto che, fino ad ora – le 7 del mattino di sabato – non si è verificato. La vita ha ripreso a correre e anima felicemente il primo sole che batte sule finestre del Mustafa dove ho il raro lusso di una camera con bagno e Tv ai piani alti. Dal lounge del ristorante, accogliente e pulito con un soffitto a specchietti di chiara impronta kitchpachistana, vedo il nuovo mega ospedale costruito a tempo record dai cinesi e che sta proprio sotto la collina di Ko-e-televisiun, come la chiamano qui: la montagna della Tv per via di una selva di antenne che la sovrasta.

Appena sotto la città continua ad allargarsi inerpicandosi sui pendii scoscesi dei monti che circondano la capitale. Pare abbia raggiunto e probabilmente superato i quattro milioni di abitanti. Come ai tempi dei sovietici, resta un polo di attrazione per chi scappa dalla guerra. Già, la guerra, la guerra maledetta che qui si vede poco. Non fosse che per le migliaia di soldati (tutti afgani) che pattugliano ogni crocevia del centro. Per quelle centinaia di bastioni di cemento armato che oscurano i palazzi, vietano gli ingressi, ingombrano – inglobando ogni giono qualche metro quadro di suolo pubblico – le strade. Nessuno paga per questa occupazione abusiva ed evidente. Ognuno fa come gli pare specie se è occidentale. Gli afgani, si dice, mugugnano e protestano. Gli afgani? Ma chi ha mai chiesto il loro parere?



Benvenuti a Kabul
, sull'ingresso del Mustafa c'è solo una guardia sonnecchiosa in questo gelido mattino d'inverno. E mi stanno portando la colazione.

Nella foto di R. Martinis una chiakana con servizio ristorante al bivio per la valle del Panjshir