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domenica 31 gennaio 2010

TRATTARE COI TALEBANI, ECCO LE RICETTE

Consigli per gli acquisti. Se ha ragione il generale pachistano Amir Tarar, uno che di talebani se ne intende, mullah Omar potrebbe decidere di recidere definitivamente i suoi rapporti con Al Qaeda ed accettare quindi di negoziare la pace con Karzai. Dalle colonne dello stesso giornale – il Guardian di Londra – Ahmed Rashid, un altro che la sa lunga gli fa sponda. “E' il momento di trattare”, dicono entrambi seppur con diverse posizioni.


Samir Tarar, che qualcuno ha soprannominato il “padrino dei talebani” perché fu tra gli alchimisti che ne curarono la crescita nel laboratorio pachistano a suon di madrase e kalashnikov, è un ex ufficiale del famigerato Isi, i servizi segreti di Islamabad. Ahmed Rashid è uno dei consulenti di Obama. Entrambi sono pachistani. Entrambi dicono che è venuto il momento di mettere le carte sul tavolo. Con qualche accorgimento.

Il punto è proprio mullah Omar, il leader dei talebani. Tarar, cui è stato chiesto di commentare l'incontro di Dubai tra un alto rappresentante Onu ed emissari talebani (smentito dalla guerriglia), dice che fino ad ora ci sono stati solo colloqui indiretti, dunque senza grande valore. La chiave, suggerisce, è coinvolgere Omar, il centro vitale delle decisioni. Non sarà, avverte Tarar, un piano di riconciliazione che cerchi di isolare l'alta gerarchia a vincere. Né basterà “comprare” i talebani a suon di dollari. Così com'è lo schema non funzionerebbe. Ma se Omar...

Il mullah semicieco è il nodo da sciogliere. Karzai vorrebbe vederlo seduto al tavolo delle trattative che dovrebbe essere avviato in primavera: una “Loya Jirga” (assemblea tribale tradizionale) presieduta da re Abdullah dei Saud, esponente di una monarchia che ha riempito le tasche dei talebani sino all'altro ieri. E vorrebbe prima di tutto che il nome di Omar venisse cancellato da tutte le liste nere in cui compare. Una prospettiva difficile e che è stata appena respinta ieri da Hillary Clinton anche se, qualche giorno prima, Robert Gates, il segretario alla Difesa americano che non si può annoverare tra le colombe ma nemmeno tra i falchi più rapaci, si era spinto a dire che, in fondo, i talebani fanno parte del “panorama politico” locale.

La ricetta di Rashid si basa su sei passi collegati: il primo è che qualsiasi strategia di riconciliazione nazionale sia condivisa a libello regionale. Poi i nomi dei leader talebani andrebbero tolti dalle liste nere, decisione che spetterebbe al Consiglio di sicurezza dell'Onu che dovrebbe quindi approvare una risoluzione che dia un formale mandato a Karzai per trattare con loro. Quarto punto: garanzie ai guerriglieri che intendano lasciare il Pakistan e far ritorno a casa. Quinto: risorse per il programma di reintegro di chi lascia la lotta armata (come appena deciso a Londra). Infine, stimolare Islamabad e Riad perché spingano i talebani a diventare un partito politico. Uno durissimo colpo – assicura – sia per Al Qaeda sia per i talebani pachistani, che dai due fronti – quello jihadista e quello afgano – traggono alimento e risorse.

Ovviamente tra il dire e il fare c'è, in Afghanistan, di mezzo il deserto. Quello dell'Helmand segnatamente, dove si continua a combattere. Ma qualcosa si sta muovendo. Come l'abitudine a considerare i talebani un nemico e non un mostro cui non ci si deve nemmeno avvicinare. Anche i talebani ci stanno (ri)pensando. Per ora le profferte della Conferenza di Londra - liquidate alla sua vigilia come una “perdita di tempo” - registrano un silenzio che è di per se una novità. Se la Nato rischia di perdere la guerra, i talebani non la stanno vincendo. E se il consenso alle truppe è al lumicino, quello ai talebani è sotto il tappeto. Che sia il momento buono?

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