Alissa Rubin del New York Times ha scritto ieri un articolo interessante su quanto succede a Kabul. Lo spunto sono le dimissioni del ministro degli Interni Hanif Atmar e del responsabile dell'intelligence afgana, Amrullah Saleh, che i lettori italiani conoscono perché, durante la recente crisi che ha coinvolto Emergency, è apparso come il grande manovratore dietro le quinte.
I fatti dicono che i due potenti uomini dell'esecutivo di Karzai si sono dimessi dopo i razzi piovuti sulla Jirga di pace, ma Rubin argomenta ben altro. I due signori sono buoni amici degli americani e dimettersi significa isolare Karzai o, meglio, fargli sentire che alcuni pezzi pesanti del suo governo lo stanno abbandonando. Ma c'è anche da dire, nota il Nyt, che Karzai le dimissioni non le ha respinte. Fuori insomma i poco affidabili, come Karzai ritiene chi schiaccia troppo l'occhio agli occidentali. Il giornale argomenta anche, e non a torto, che il presidente afgano è in cerca di nuove alleanze: con i talebani all'interno e con l'Iran all'esterno, due soggetti che a Washington non godono di grandi favori. E' la parte più interessante dell'articolo cui val la pena di aggiungere che Karzai si sta muovendo anche con altri partner da novanta: Delhi, Pechino, Mosca. Scegliete voi l'ordine di priorità.
All'interno è sempre più isolato perché, dice il Times, i signorotti della guerra Hajji Muhammad Moheqiq e Abdul Rashid Dostum, suoi alleati al tempo delle presidenziali, alla Jirga non sono andati (come Abdullah Abdullah). E in più Karzai sarebbe seriamente preoccupato dall'exit strategy di Obama per il 2011. Paesaggio che sembra prefigurare quanto avvenne a Najibullah (aggiungiamo noi), l'ultimo presidente filosovietico che rimase al governo dopo che nell'89 l'Armata rossa aveva varcato all'indietro l'Amu Darya.
L'articolo dimostra ancora una volta che, se Karzai si fida sempre meno dei suoi alleati occidentali, i suoi alleati, americani in testa, si fidano sempre meno di lui. E' un tiro al piccione già visto. Ma cosa dovrebbe fare il presidente afgano? Nei panni di Karzai chiunque si muoverebbe come lui. Il progetto di portar via i soldati e abbandonare il campo è fin troppo evidente, per chi sa legger tra le righe, tanto da ridicolizzare la parola d'ordine, ormai di retroguardia, “Via i soldati dall'Afghanistan”. Karzai sa che, per questione di soldi e di consenso, sarà abbandonato dai fidi alleati occidentali e dunque occorre premunirsi in vista della guerra civile. Chi pagherà il conto?
Najibullah non crollò perché i mujaheddin, armati di fede e kalashnikov, erano forti e amati dal popolo. Fuor di retorica, crollò dopo un paio d'anni perché Mosca gli tagliò i fondi e non potè più pagare il soldo alle truppe. Karzai lo sa. Chi pagherà l'esercito messo in piedi dalla Nato, 400mila uomini entro un paio d'anni se tutto andrà come dice il piano A? E se gli americani tagliano il soldo? O Karzai si è accordato prima coi talebani e ha costruito un gioco forte per tener lontane le mire pachistane, o deve trovare soldi freschi per mantenersi in sella e prendere i talebani per fame e per sete se dovessero dipendere solo dalle casse di Islamabad e di Riad che, a quanto pare, non ha mai smesso di strizzar loro l'occhiolino. Come lo si voglia giudicare, Hamid Karzai, non si può proprio dire che non stia agendo con lungimiranza.
Karzai resta solo? Le dimissioni di due importanti personaggi sembrano dire così. E il presidente si attrezza. Guardando all'Iran ma anche a Pechino, a Delhi, a Mosca. Per sfuggire la sindrome Najibullah
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