Se la notizia della giornata ieri in Afghanistan riguardava l’ammissione ufficiale del governo afgano, anzi dello stesso Karzai, che ebbene sì, si sta trattando coi talebani, molte altre le hanno fatto da corredo. Ad esempio la polemica che riguarda la morte della trentaseienne scozzese Linda Norgrove, sequestrata a Kuanr nell’Est (zona dov’è in corso tra l’altro una vasta offensiva talebana) e che pare sia stata causata da una granata lanciata dalle forze speciali americane che la volevano liberare. Effetto collaterale indesiderato di un’azione malriuscita, la povera Linda però era stata data, inizialmente, per uccisa dai suoi rapitori.
Il dibattito sulle operazioni militari, che in questi giorni di trattative più o meno sotterranee con questo o quel fronte guerrigliero si intreccia col difficile dipanarsi di un fragile filo negoziale, ha già dimenticato i quattro soldati italiani uccisi da una potente carioca di esplosivo nel Gulistan. Ma l'accesa polemica nel nostro Paese finisce a catapultasi anche qui, se non altro per ricevere un'opinione.
“Un esercito deve combattere. E’ in guerra – argomenta Rafiee Aziz dell’Afghan Civil Society Forum, rete progressista della società civile afgana - non è qui per fare la pace e dunque un aereo senza bombe...non e’ un aereo. In una guerra devi dare battaglia e non credo che gli afgani facciano poi una gran differenza tra uno Stato e un altro, visto che l’Italia è nella Nato”. Se il cronista può fare una chiosa, tanto per inquadrare gli interlocutori, Aziz fa parte di quel segmento di società modernista, se ci si passa il brutto termine, fieramente antitalebano. Quello che teme che il Paese sia abbandonato al caos. In un caos dove gente come lui, le attiviste femminili o delle Ong, finirebbero al cappio.
Ahmad Fahim Hakim, è invece il numero2 di Sima Samar (già candidata al Nobel per la pace) nella Commissione indipendente per i dritti umani. Si affida a una risposta diplomatica: “Le truppe straniere, come quelle nazionali, devono essere ben equipaggiate e in grado di rispondere alla sfide che vengono dai talebani, dagli affiliati ad Al Qaeda o ad altri gruppi radicali. Ma – avverte – noi abbiamo sempre messo in guardia sia le forze nazionali sia quelle internazionali sul dovere di rispettare la popolazione civile e sulla salvaguardia del diritto internazionale in materia di civili. Più volte abbiamo espresso la nostra preoccupazione e pubblicato documenti su quello che è un aspetto fondamentale e cioè i diritti della popolazione civile”.
Agli argomenti di una figura a metà tra istituzione e società civile si aggiungono le risposte ben argomentate di Gran Hewad, analista dell’Afghanistan Analysts Network, un centro studi autorevole di Kabul: “Prima di tutto dobbiamo dire che non siamo in grado di valutare l’efficacia militare dei bombardamenti. I dati sono inattendibili e spesso vengono gonfiati ad arte quale che sia la parte in causa, per diverse ragioni. Quanto siano efficaci dunque, dal punto di vista strettamente militare, è difficile da dire. Punto due - continua Gran – le vittime civili dei raid aerei sono un elemento ineliminabile e ciò ovviamente tende a creare un risentimento diffuso nella popolazione e di cui la guerriglia approfitta facilmente. Statisticamente, un ciclo di violenza finisce sempre per favorire i talebani: quando c’è una distruzione sistematica, anche le attività economiche collassano e a guadagnarci, anche in termini di reclutamento, sono i guerriglieri. Punto tre, la guerriglia ha in generale il vantaggio di sapere dove mirare perché ha di fronte delle divise, mentre la coalizione non sa mai dove colpire con esattezza. Nei bombardamenti questo elemento di dubbio diventa ancora più forte”.
E gli italiani? “Gli italiani tutto sommato hanno saputo costruirsi una buona immagine nell’Ovest e non è vero che gli afgani non sappiano fare la differenza tra il cosiddetto modello italiano o quello americano. Gli italiani hanno investito in sviluppo, riabilitato strade o acquedotti conquistandosi in parte la popolazione. E questo, si badi bene, ha un effetto indiretto anche sulla guerriglia che deve comunque fare i conti con la comunità locale. Voglio dire che se la comunità locale riceve un certo benefico da un intervento esterno, cercherà pragmaticamente di tutelarlo, limitando l’intervento della guerriglia. Ora se l’Italia vuole cambiare modello – conclude il ricercatore di Aan - deve sapere che inevitabilmente un’escalation militare significherebbe un aumento di attacchi e, altrettanto inevitabilmente, ciò si tradurrebbe in un aumento delle vittime....in dari diciamo che dar jang halwa taksim namesha, ossia in guerra non si distribuiscono dolcetti. Voglio dire che se si vuole la guerra vera, tutto il resto si perde. Anche anche quello che finora un particolare atteggiamento aveva prodotto”.
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