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mercoledì 13 ottobre 2010

IL CALZOLAIO DI KABUL

Il mondo è fatto a scale, diceva quello. Ma io penso che invece sia fatto a scarpe. Potete ingannare col viso, il trucco, l'acconciatura, il cappello e il vestito. Ma finite sempre a tradirvi con le scarpe. Non, badate bene, se son lustre o impolverate. Ma la marca, la forma, la scelta dice da dove venite, chi siete. Non è una semplice passione retifista. Se fossi un'agente dei servizi (quelli italiani portano scarpe di solito a punta di buon cuoio e molto lucidate, di preferenza chiare) farei caso prima di tutto alle scarpe: il tipo vi dice che è inglese ma voi notate che porta i sandali con le calze...è tedesco per diana! E poi c'è l'italiano che vuol dissimulare. Ma casca sul mocassino. L'italiano non riesce mai a rinunciare al mocassino, da Napoli a Trieste. Eppure la terribile rivoluzione delle scarpe da tennis per un attimo aveva fatto temere che la globalizzazione avrebbe spazzato via ogni colore, ogni identità calzaturiera. Ma è durato poco. Chi le mette più le scarpe da tennis (anche quelle più o meno “eleganti”)?

Faccio queste riflessioni a Kabul perché qui, tra i mille problemi (ma ogni tanto si potrà pur sorridere in mezzo al dramma), le scarpe sono un vero dilemma. E, come ovunque, un indicatore. Poiché le strade non sono asfaltate che a metà, pur essendo una capitale (il costo dell'operazione, mi disse quattro anni fa il sindaco della città, valeva 4 milioni di dollari ma nessuno voleva metterceli), se è secco è una valanga di polvere e, se è bagnato, un lago di fango. Se camminate, le impolverate e le schizzate di melma e quindi, quando arrivate alla vostra destinazione, vi vergognate come un ladro. Ecco l'indicatore. Chi ha le scarpe linde non cammina per strada. Usa la macchina, l'unica scarpa da passeggio della comunità internazionale.

Il vostro 007 ha già un indizio. Il tipo va in macchina o no. Poi ci si può sbizzarrire su qualità, tipo, fattura. Nell'Oriente medio e centrale la scarpa a punta impazza. Ci cascano tutti. Piace. Da noi non si usa più e dunque, se ne vedete una, dev'essere qualcuno dei servizi. Qualche eccezione al Sud dove ancora si utilizzano. Negli anni Settanta-Ottanta, le portavano i fasci: a piazza san Babila era tutto un fiorire di punte, fibbie, fronzoli di cuoio. I “compagni” invece portavano Clark o simili, scarpette di cuoio rovesciato buone per il deserto e molto scivolose in caso di pioggia. Anche l'ideologia passava per le scarpe. Non ne parliamo per le donne: guai a mettere i tacchi. Ma, per chi se lo ricorda, un'eccezione accomunava tutti: mocassini, anche per signorine, fasce o compa (zecca o pariolina si direbbe oggi) che fossero. Sui sandali non mi dilungo ma pensate un po' a quanto pensiero sta dietro alla scelta: flip flip (o verdadera bahiana) per i più sofisticati oppure i tedeschi Birkenstock per chi ha fatto la scuola steineriana. E quelle di corda alla spagnola (espadrilla)? E infine tutta l'epopea delle marche: Timberland, College, Church....che sono un messaggio inequivocabile (di spesa).

Per tutti, ma soprattutto per certi popoli, le scarpe sono un'ossessione. Conosco amiche che ne hanno decine di paia alcune delle quali mai portate. Imelda Marcos, del resto, ne aveva centinaia. La gente moriva di fame e lei si comprava un paio di decoltée. Poi ci sono gli stivali e così via. Ma quel che volevo dire è che questa debolezza può tradirvi. Girate in shalwar kmeez, portate gilet e karakuli, avete la barba lunga e sapete qualche parola di dari. All'inizio vi scambiano per afgano ma poi...gli casca l'occhio sulle scarpe. Vi siete messi delle Saxone, un marchio immortale molto british che le ondate modaiole non hanno mai soppresso. Anche se sono impolverate dicono da dove venite. Gran Bretagna? Nooooooo. Le Saxone le mettono gli italiani. Un bravo 007 lo sa

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