Proprio dietro allo stadio, un tempo luogo di esecuzioni pubbliche adesso ritornato tempio sportivo, c'è un vasto locale senza insegne e con un piccolo parcheggio davanti. Quando entrate, se non fosse per le shalwar kemeez, i camicioni che si portano sotto un lungo gilet multitasche e che costituiscono l'abito nazionale, vi sembrerebbe di essere in un qualsiasi bar attrezzato della Vecchia Europa. Nel largo salone rettangolare ci sono oltre una decina di tavoli da biliardo, le luci basse per curare la mira, folle di curiosi e abili giocatori con la stecca e il gesso in mano. In gran parte sono ragazzi (rigidamente maschi) che hanno in questo insospettabile ritrovo di gioco uno dei rari luoghi dove un giovane può prendersi un paio d'ore di svago a Kabul. Ci sono anche ragazzi “moderni”, con giacconi di cuoio o finto cuoio, i capelli lunghi, le scarpe rigidamente a punta. Qualche moto fuori dal locale, e anche il bulletto di turno che se la tira, come in ogni luogo pubblico del mondo.
Ma se lasci la sala da biliardo ed escludi i ristoranti, da sempre e ovunque luogo di ristoro dello spirito oltreché dello stomaco, avere 16 o 24 anni a Kabul non è granché. Qualche passeggiata al parco con gli amici o un salto al bazar e, per chi ha più soldi, la possibilità – impensabile solo qualche anno fa – di sedersi in un ristorante per accarezzare lascivamente la mano della propria bella che, per l'occasione, fa scendere il velo sulla metà del capo, esibendo capelli lucidi e corvini.
Ma la città offre questi svaghi solo a chi ha soldi in tasca e, come spesso accade, i quattrini della comunità internazionale si sono incanalati assai poco verso attività o occasioni per i giovani. E questa è Kabul, figurarsi nel resto del paese.
Da quando si nasce, in Afghanistan (e considerando il fatto che sopravvivere al parto è una scommessa in uno dei Paesi con la più alta mortalità infantile del pianeta), la vita è tutta una sfida. Soprattutto negli ultimi trent'anni, da quando cioè ai rischi tradizionali legati alla povertà, si è aggiunta la guerra. Secondo le organizzazioni umanitarie, tanto per dirne una, 850 ragazzi ogni giorno muoiono per cause legate più o meno direttamente alla loro condizione sociale: spesso per una semplice malattia polmonare o una diarrea che un antibiotico a basso costo curerebbe senza problemi. Eppoi c'è la guerra: delle oltre 2mila vittime civili che ogni anno il conflitto mette a bilancio (più 31% nei primi sei mesi del 2010), la percentuale di donne e bambini resta elevatissima. Al netto delle mine che ancora continuano a minacciare chi attraversa un campo.
La Fondazione tedesca Friedrich Ebert Stiftung si è inventata un'attività “Giovani leader” che, detta così, fa sorridere. Ma che sembra funzioni bene. Son gruppi di ragazzi che si riuniscono e, parlando in inglese, discutono e polemizzano sui temi più svariati. Ha avuto successo: è una delle poche cose che un ragazzo può fare da queste parti. Anche se non è per tutti: sapere l'inglese vuol dire che siete già tra i privilegiati che vanno all'Università.
Al parco di Sharenaw, nel cuore della città, se ne vedono di ragazzi a passeggio anche se le femmine le incontri soltanto quando escono da scuola o accompagnate dalle madri in giro per la città. Nella capitale, specie nel centro, il burqa è quasi un ricordo: jeans e tacchetti, rossetto e unghie laccate anche se con il velo ben calcato in testa. Nella piazzetta vicino al cinema (ce n'è più d'uno con film indiani o pachistani), un tipo affitta motorini monomarcia: un giro a tutta birra e il giorno di festa (il venerdi ovviamente) prende già un tono. Più in là si gioca a pallone o a cricket, uno sport che ora va per la maggiore e che, se non è nel parco di Sharenaw, si può praticare nel largo spiazzo antistante lo stadio. Ma ci sono anche una quantità di piccoli cenciosi ragazzini che vendono gomme da masticare o si trascinano con la loro scatola di legno o cartone, un piccolo laboratorio improvvisato nel quale ci son spazzole e lucido da scarpe. Arte di arrangiarsi, oltre le elemosina, per i circa 4mila bambini di strada di Kabul. Vita grama e, di recente, al centro di una polemica.
Si tratta della gaffe “infantile” in cui un diplomatico di lungo corso come Marrk Sedwill, Senior Civilian Representative della Nato a Kabul (rappresentante civile) è clamorosamente incorso alcuni giorni fa quando, durante un'intervista con la Bbc, si è esibito nell'improvvida descrizione di Kabul come di una sorta di città felice, dove un bambino, assai meglio che a Londra, Glasgow o New York, può vivere – a detta sua – correndo meno rischi. Gli sarebbero bastati quattro passi a Sharenaw, che non è molto lontano dal suo ufficio, per rendersi conto che persino lì, a due passi dalla Green Zone (il blindatissimo quartiere delle ambasciate dove vive l'élite occidentale), vaga un numero indefinito di ragazzini coi vestiti laceri, in molti casi vittime, oltreché dell'endemica povertà, di qualche perversa macchina dell'elemosina gestita dai più grandi, dai parenti o da chi sfrutta gli orfani della guerra.
Le reazioni indignate di organizzazioni umanitarie come Save the children o dello stesso Consiglio municipale di Glasgow sono arrivate in un batter d'occhio proprio per ricordare a Sedwill che in Afghanistan i minori muoiono ogni giorno sotto le bombe e che, poco meno di un migliaio fra loro, sono vittime quotidiane di diarrea o malattie effetto, seppur indiretto, di trent'anni di guerra. Del resto se quella di Sedwill è un'improvvida gaffe forse dettata dalle migliori intenzioni (si è poi in qualche modo giustificato), la verità è che la comunità internazionale vive così blindata negli appartamenti corazzati che formano la Zona verde di Kabul, che la distanza dal mondo reale, resa ancora più estesa dalle rigidissime norme di sicurezza, li rende forse impermeabili alla condizione degli afgani. Giovani e meno giovani. Ma l'uscita di Sedwill è anche il segno di un'ignoranza del problema. Una superficialità grave nei confronti di un largo segmento della società afgana.
L'opinionista Fabio Mini ha scritto recentemente (http://www.ntnn.info/it/articles/l-afghanistan-e-le-generazioni-perdute.htm) che “Una grande minaccia all’Afghanistan che non viene né dai talebani né dai signori della guerra, viene dalla mancanza di recupero delle “generazioni perdute”.... perdute in morti, in feriti, in invalidi permanenti, in genitori mai nati, in anni di mancanza d’istruzione e in mancanza di prospettive di vita dignitose. Nel momento in cui il paese ha avuto bisogno di risollevarsi si è trovato senza leadership, senza una classe sufficientemente istruita per assumere le responsabilità dell’amministrazione del proprio paese (e) si è dovuto affidare a famelici legulei stranieri, pagati a peso d’oro, che hanno preteso di riscrivere le leggi che funzionavano ed imporre altre leggi che stravolgono la cultura e che risultano incomprensibili oltre che inaccettabili”.
Le parole di Mini sono il segno di un disinteresse che costerà un caro prezzo. Forse c'è ancora una piccola finestra per capirlo. Capire che lo sviluppo di un Paese non sono solo strade e ponti ma un investimento sul futuro che passa anche per i giovani ventenni senza lavoro e senza prospettive che bazzicano il parco di Sharenaw. Altro che Londra e Glasgow.
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