Il manufatto, in mattoncini rossi, è una struttura dove il via vai di carri armati e soldati è abbastanza impressionante. Il suo perimetro, lungo per chilometri a perdita d'occhio, racchiude una porzione impressionante della città ed è, rispetto allo smilzo aeroporto civile al suo confine, una specie di mostro onnivoro e in divisa. Ma, certo, per un afgano di Kabul deve voler dire poco: da che c'è la guerra l'aeroporto militare è sempre stato un corpo estraneo come molti altri in città, non ultimo un'immensa struttura di metallo che, di giorno in giorno, cresce a dismisura nell'area comperata dall'ambasciata americana dove sta sorgendo lo scheletro gigantesco di un ecomostro in cemento, non si a cosa destinato se è vero che a luglio gli Stati uniti inizieranno a ritirarsi.
Così all'ingresso dell'aeroporto, davanti al luogo più protetto della città, siete esposti a qualsiasi attacco e costituite l'obiettivo perfetto se qualcuno vuole fare un bel massacro senza far troppa fatica. Quanto accade fuori dal muraglione dell'aeroporto non interessa al militare che vi guarda torvo dalla torretta. Se crepate in faccia all'aeroporto non lo riguarda. Dentro è tutto pulito, fuori si può sporcare tranquillamente di sangue il marciapiedi.
Nel fare questa riflessione ho pensato che davvero all'apparto della nostra presenza in Afghanistan interessa solo la forma e non la sostanza: la sicurezza prima di tutto per noi, a casa nostra, nelle strutture ben protette che, dall'aeroporto alla Zona verde, dicono agli afgani: siamo qui a proteggervi ma, ovviamente, prima di tutto pensiamo a noi stessi. Mi è venuto uno sfinimento profondo mentre assaporavo il tiepido sole di questa primavera afgana, al solito piena di polvere e tristezza. Come se da queste parti nemmeno il sole riuscisse a scaldare la pelle che ricopre i pensieri nefasti che accompagnano questa guerra come un viandante miserabile e ineludibile. Coperto di stracci e rigorosamente tenuto fuori dalla porta di casa.
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