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lunedì 21 marzo 2011

AFGHANISTAN, NEGOZIATO SOTTO TRACCIA

Nonostante le vicende afgane siano state inevitabilmente oscurate dal nuovo scenario imposto dal Nordafrica e dalle rivoluzioni nel mondo arabo musulmano, qualcosa si fa strada nell'intricata matassa della guerra infinita. Presto per dire se si tratta dell'ennesimo ballon d'essai per spingere anche i più riottosi verso un negoziato che si profila inevitabile o effettivamente di una svolta reale. Qualcosa però si sta muovendo.

Le danze le ha aperte a fine febbraio il New Yorker con un articolo di Steve Coll, un giornalista che ha vinto il Pulitzer e dunque non proprio solo un cronista d'assalto. Secondo Coll, che riferiva di quanto gli hanno detto alcuni funzionari dell'Amministrazione americana, alcuni inviati statunitensi sono entrati in contatto diretto con i talebani avviando un primo segreto contatto con la guerriglia. La Casa bianca non ha smentito, limitandosi a ricordare i paletti che gli americani hanno sempre messo davanti a qualsiasi negoziato (riconoscimento della Costituzione afgana e abbandono della lotta armata e dei legami con Al Qaeda), ma sottolineando che proprio Richard Holbrooke era sceso a patti col diavolo – Slobodan Milosevic – col risultato di fermare la guerra. In febbraio i paletti sono stati reiterati dalla signora Clinton ma la chiusura totale a un confronto diretto coi talebani sembra essersi dissolta. I paletti restano ma la porta rimane aperta.

Se a Coll sia stata raccontata la verità o un pio desiderio non sappiamo dire. Certo l'atteggiamento è cambiato così come sembra essersi ammorbidito quello assai muscolare di David Petraeus, il generale tutt'ora in comando alle forze alleate della coalizione che fa capo alla Nato. Nell'ammettere davanti al Congresso, qualche giorno fa, che nonostante “significativi progressi” la situazione resta “fragile e reversibile”, il marmoreo comandante americano sembra aver aperto lui pure uno spiraglio. Anche perché alcuni elementi lo consentono e altri lo consigliano.

Sul piano militare la Nato non ha in realtà fatto progressi sostanziali ma è pur vero che anche la marea montante talebana sembra aver subito una battuta d'arresto. L'aumento consistente di azioni terroristiche a danno di civili (come a Kunduz e a Jalalabad alcuni giorni fa dove kamikaze hanno ucciso quasi cento cittadini inermi) e la crescita degli attacchi con Ied (bombe sporche poste al ciglio delle strade), anch'esse con un bilancio enorme di civili uccisi, segnala due elementi: il primo è che il ricorso massiccio ai kamikaze e agli Ied evidenzia una tattica militare che cerca di evitare lo scontro in campo aperto ed è dunque segnale di debolezza. Il secondo è che l'aumento consistente di civili uccisi sta creando una danno ai talebani così elevato che nei ranghi della guerriglia in turbante si sarebbe aperto un vero e proprio processo alle frange che utilizzano sistemi il cui costo sociale è enorme e la cui ricaduta sul consenso alla guerriglia è del tutto negativa.

Benché i talebani abbiano contestato le cifre fornite dall'Onu e dalla Commissione nazionale afgana per i diritti umani, secondo cui la guerriglia sarebbe responsabile del 75% delle morti di civili nel 2010, l'aumento della responsabilità talebana nelle uccisioni di donne, uomini e bambini innocenti comincia a pesare sulla strategia di lungo termine soprattutto della shura di Quetta. Secondo l'Afghanistan Analysts Network (Aan), un autorevole think tank afgano che ha condotto un inchiesta sul codice di comportamento talebano, le recenti stragi di civili a Kunduz, Jalalabad e in altre zone del Paese hanno aperto un vero e proprio contenzioso tra il vertice e alcuni comandanti che, secondo un portavoce talebano, verranno punti se ritenuti colpevoli di aver violato i comandamenti emessi da mullah Omar nel 2009 sul rispetto e la protezione dei civili. E' noto infine che la distanza tra la shura di Quetta – che fa riferimento diretto alle decisioni del mullah Omar – e la filiera della famiglia Haqqani, che controlla parte del settore orientale al confine col Pakistan, sta notevolmente aumentando, figlia di un contenzioso antico di almeno cinque anni sul modo di condurre la guerra agli stranieri: azioni d'avanguardia kamikaze contro la più tradizionale teoria della lenta ma inesorabile conquista territoriale. Lo stesso si può dire dei rapporti con Gulbuddin Hekmatyar, leader del “terzo fronte” guerrigliero e in grado cdi controllare, almeno in parte, proprio la zona di Kunduz. Il primo vero segnale è di sei mesi fa quando, agli inizi di agosto, sei cittadini americani, un britannico, un tedesco e due afgani afgani appartenenti a una organizzazione non governativa cristiana vennero trucidati brutalmente tra il Nuristan e il Badakshan. Dopo la rituale rivendicazione talebana, una caparbia analista di Aan aveva deciso di andare a fondo. E dopo essere entrata in contatto con un portavoce talebano le era stato detto che la shura di Quetta aveva condannato l'episodio: che stava anzi cercandone i responsabili e che, una volta trovati, sarebbero stati puniti. L'ipotesi che circolò allora era quella di di gruppi salafiti infiltrati nel Badakshan e nel Nuristan che avevano messo a segno l'agguato senza un mandato dai vertici. Anche perché – e questo è il guaio della guerra e dei talebani - un unico vertice guerrigliero non c'è.

Tutti questi elementi uniti allo stallo inevitabile della guerra (i talebani ripetono di aver dalla loro il tempo ma sanno che non potranno mai prendere le città e che le stragi di civili continuano a minare un già magro consenso popolare anche nelle regioni che controllano), potrebbero aver portato la leadership (o per meglio dire, una parte della leadership) a più miti consigli. Lo stesso vale per gli americani, pressati dalla consegna dell'inizio del ritiro (luglio 2011) e da una guerra sempre più impopolare. In tutto questo ci sono almeno due problemi.

Una trattativa diretta tra americani e talebani è possibile e forse persino auspicabile ma si scontra quantomeno con l'ostacolo rappresentato dal detentore legittimo del piano di riconciliazione nazionale, e cioè il presidente Karzai e il suo Consiglio supremo di pace che non può essere, almeno formalmente, bypassato tout court da un negoziato diretto tra guerriglia e alleati. Il secondo ostacolo è rappresentato dal Pakistan che non ha fatto mistero di voler giocare la carta negoziale purché sia Islamabad a guidare il gioco e non certo Washington con cui il Pakistan è ai ferri corti. Anche per questo motivo, qualche mese fa, era maturata l'ipotesi, concretizzatasi in alcuni incontri di alto profilo a Kabul e a Islamabad, di un patto pachistano-afgano nel quale Karzai riconosceva una sorta di diritto di prelazione ai pachistani e il Pakistan garantiva i suoi buoni auspici sulla leadership talebana. Ma nella realtà dei fatti, alla shura di Quetta questa prelazione pachistana va un po' stretta. Ecco perché l'opzione del colloquio diretto col nemico avrebbe preso piede.

A conti fatti quello che sembra ancora mancare è un mediatore terzo e super partes: non l'Arabia saudita o i paesi del Golfo, troppo schiacciati su Washington, non l'Onu, percepita come troppo filo occidentale, anche se possibile anfitrione di un soggetto terzo, che qualcuno ha individuato nella Turchia: abbastanza vicina all'Occidente, essendo un partner Nato, ma abbastanza digeribile dai talebani, in quanto Paese musulmano e sufficientemente affidabile da garantire forse anche un ufficio di rappresentanza dei talebani ad Ankara. La strada resta in salita ma i tempi sembrano maturare e qualcosa potrebbe accadere. Ad esempio la cancellazione, più volte richiesta, dei capi talebani dalla lista nera dell'Onu. E garanzie sicure che l'inizio del negoziato non sia seguito da arresti di massa. Potrebbe persino essere che la scarsa attenzione internazionale alle vicende afgane, distolta dagli aventi africani e mediorientali, si riveli un'occasione importante per poter lavorare sotto traccia senza troppi occhi indiscreti e senza inopinate levate di scudi.

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