
E se il presidente pachistano Asif Ali Zardari, sul Washington Post, sentenzia che il suo Paese non ha collaborato all'operazione Abbottabad, è anche vero che l'ambasciatore del Pakistan negli Stati Uniti ha annunciato che Islamabad aprirà un'inchiesta per “fare piena luce” sull'operato dei servizi di intelligence pachistani (Isi) nella caccia a Osama. E si perché, ammette Hussain Haqqani alla Cnn, “...è chiaro che bin Laden aveva una rete di sostegno...la questione è sapere se questa rete si trovava all'interno del governo, dello Stato o della società pachistana....”. Nel contempo il dicastero degli Esteri smentisce l'utilizzo di basi nazionali per gli elicotteri Usa in missione su Abbottabad. Insomma due messaggi che cercano di parlare a pubblici diversi: quello pachistano e quello americano-occidentale.

La stampa pachistana (in lingua inglese) fa la voce grossa. L'autorevole “The Dawn” solleva sospetti sull'effettiva collaborazione tra la Cia e l'Isi e si domanda se gli americani si fidino o no degli alleati ma sul PakTribune il premier Gilani spiega che la caccia a Osama è stata resa possibile da uno scambio di informazioni tra americani e uomini dell'intelligence di un Paese “schierato nella guerra al terrore”. Mezze ammissioni. Con prudenza: non è che ai propri cittadini si può dire che con gli americani siamo un tutt'uno e rinnegare scontri durati un anno al calor bianco sulla violazione degli spazi aerei (coi droni) e della sovranità nazionale (come tra l'altro ricordato ieri da un gruppo di senatori dell'opposizione e dal ministero degli Esteri). Bisogna andarci piano. E insomma, com'è andata?
La teoria che va per la maggiore, con qualche solido appiglio, è che nell'Isi (nell'esercito, nel governo, nel Paese) ci sono forse più di due anime antitetiche, spesso conflittuali ma che tutto sommato convivono in un Pakistan che di anime ne ha diverse: filoccidentali, smaccatamente antiamericane, integraliste, eminentemente laiche, secessioniste, di minoranza e via discorrendo. Farle convivere, utilizzarne i vasi comunicanti, reggerne i diversi equilibri profittando ora dell'una ora dell'altra, è stato uno dei grandi rovelli (e drammi) di ogni presidente, dal pragmatico fondatore del Paese dei puri, Ali Jinnah, al socialdemocratico Zulfikar Bhutto, al fervido islamista Zia Ul-Haq per finire col fragile Asif Zardari dei giorni nostri. Partita difficile e sempre sotto la spada di Damocle di un potente vicino (Delhi) pur se con l'appoggio di qualche altro potentissimo alleato (Pechino e poi Washington, a volte Riad.

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