Il bilancio è fermo a dodici persone morte, sette delle quali proprio a Herat, dove una folla ha cercato di assaltare il consolato statunitense. A Kabul, invece, centinaia di persone hanno marciato verso il palazzo presidenziale di Hamid Karzai, scandendo slogan contro il governo e contro gli Stati Uniti. La polizia afgana ha sparato in aria per disperdere la folla e secondo il portavoce del governo Sediq Sediqqi, tre civili e due poliziotti sono rimasti feriti. Manifestazioni meno veementi nei modi ma non meno cariche di rabbia ci sono state anche a Ghazni, Nangarhar, Paktia, Kunar, Bamyian e Khost. Il governo afgano cerca di placare l’opinione pubblica chiedendo che i responsabili della dissacrazione del Corano siano processati pubblicamente e il generale John Allen, comandante delle truppe Nato, ha cercato di rassicurare gli afgani spiegando che la Nato e il governo «lavorano assieme per evitare che incidenti simili si ripetano».
Una commissione nominata dal governo Karzai ha descritto l’episodio come «vergognoso» ma ha anche lanciato un appello alla «calma e all’autocontrollo, vista la particolare situazione del paese». Per buona misura di sicurezza, però, a Kabul la polizia antisommossa presidia gli snodi principali della città e il personale dell’ambasciata statunitense, in stato di massima allerta, ha ricevuto istruzione di limitare al massimo gli spostamenti.
La vicenda ha del resto illustri precedenti, l'ultimo dei quali accaduto non molte settimane fa quando un video postato anche su Youtube, aveva mostrato dei marine americani mentre orinavano ridacchiando sul corpo senza vita di alcuni “insorgenti”, come vengono chiamati i guerriglieri talebani. Ma per un musulmano, insultare il Corano, è assai peggio che prendersi gioco della vita di un combattente ucciso. Allora infatti le reazioni furono contenute e, per parte talebana, si limitarono a un comunicato nel quale la guerriglia in turbante, confermando il suo giudizio sulle truppe di occupazione e le loro efferatezze, aveva però certificato che l'episodio non avrebbe ostacolato i negoziati in corso (tra americani, tedeschi e talebani) che, com'è ormai noto, si sono svolti sotto traccia per oltre un anno per arrivare, se tutto filerà liscio, all'apertura di un ufficio politico dei talebani a Doha, in Qatar.
Stavolta, l’ampiezza delle proteste segnala anche una crescente e diffusa frustrazione: atti come quello di Bagram evidenziano che, per una parte almeno dei militari stranieri, dieci anni non sono bastati per capire il paese in cui si trovano. E questo spiega se non tutti, certamente una buona fetta dei fallimenti politici conseguenti.
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