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mercoledì 6 agosto 2014

Afghanistan, se l'Italia non cambia passo

Secondo Roberta Pinotti, ministro della Difesa in visita alle truppe italiane ad Herat, i soldati sono "la miglior carta d'identità del nostro Paese all'estero".

 Senza nulla togliere ai soldati italiani, molti dei quali in Afghanistan hanno perso la vita, e senza entrare nel merito della missione in sé (di pace? di guerra?), ci sembra grave che per un ministro della Repubblica, benché della Difesa, sia la forza militare la "miglior carta d'identità" dell'Italia in quel Paese. Anche le parole hanno un peso

 Ci si aspetta che l'Italia cambi passo anche dal punto di vista militare ma, soprattutto, investendo di più nel settore civile. Quella dovrebbe essere la nostra "carta d'identità". Una questione di priorità.

giovedì 6 marzo 2014

Tossicodipendenza, il nuovo centro di Herat

Alcuni mesi fa, poco prima dell'estate, il Prt di Herat (la struttura della Difesa che interviene sul settore civile) ha messo in piedi, su richiesta del governatorato della provincia, un centro per la tossicodipendenza per 50 persone. A tempo di record la struttura è stata terminata a fine anno e inaugurata in gennaio dal viceministro del dicastero della Salute da cui il centro dipende. Andiamo a visitarlo accompagnati dal colonnello Vincenzo Grasso, attuale responsabile del Prt (Provincial Reconstruction Team), le unità civile-militare spesso oggetto di polemiche e che adesso, a fine marzo, considerano concluse attività durate quasi dieci anni. Il colonnello è soddisfatto del Centro e in effetti ne ha ben donde. La struttura si aggiunge ad altri sette centri della città e a un capannone in cui la polizia si occupa di dare ricovero ai tossicodipendenti trovati per strada e che non hanno un tetto o non sono in condizione di andare a casa.

Il centro non è distante dall'aeroporto ed è gestito da un medico, il dottor Zalmai Ataie, che ha preso ispirazione da Wadan, un'organizzazione non governativa iraniana attiva in Afghanistan (dieci centri e due ambulatori) dal ...2003 (il primo progetto è stato finanziato dall'Unodc con 1200 dollari!). Lo spirito è quello dell'accesso su base volontaria e, in Afghanistan, la “cura” dura sei settimane (dentro) e un programma di monitoraggio che dura fino a sei mesi (fuori). La percentuale di successo in genere è bassa: il 90% dei pazienti ricade nell'uso. Ma per ora statistiche il nostro Centro non è in grado di farne. E' ancora presto. Non c'è trattamento medico (se non sintomatologico per dolori di testa o alle articolazioni) e i pazienti vengono seguiti con un sostegno psicologico, colloqui personali e con le famiglie. Il centro ha una piccola sala di ricreazione (stanno aspettando un biliardo), una grande sala per incontri collettivi, salette per colloqui con le famiglie e le stanze con i letti (il centro vorrebbe ospitare cento pazienti). C'è anche una piscina (per ora non in funzione).

Progettato da ingegneri italiani e afgani, è una bella struttura luminosa e non invasiva, di un certo gusto e costruita con materiali di qualità, pensata per innalzarsi di un piano se, come si vorrebbe, il centro potesse ospitare anche donne. Il fenomeno della tossicodipendenza riguarda circa il 3% degli afgani, ossia un milione di persone di cui l'80% sono maschi e il 13% donne (il 7% minori). Il dottor Zalmai sostiene che la causa principale della tossicodipendenza è la povertà unita alla mancanza si lavoro. Ma è noto che un'influenza marcata sulla crescita del fenomeno sta nel fatto che molti sono ex rifugiati o migranti: gente che ha iniziato a usare oppiacei in Iran proprio per sostenere i ritmi di lavoro. Una volta a casa, in Afghanistan, il reperimento di oppio o eroina è ancora più facile e a prezzi accessibili. L'uso di siringhe, dice il dottore, non è ancora molto diffuso.


Nella sala comune, una quarantina di pazienti (dai 30 ai 40 anni), sta ascoltando un medico. Ci salutano e scambiano qualche sorriso con noi. Questo centro è in effetti una delle poche strutture pensate apposta per i tossicodipendenti, un tema relativamente recente e con numeri in crescita: fino a qualche anno fa il problema veniva risolto chiudendo gli occhi e girando le spalle o indirizzando i pazienti all'ospedale psichiatrico (che in realtà esiste solo a Kabul). Lasciamo da parte le strutture private che non mancano mai. Capirne di più non è semplice: i dati scarseggiano, le statistiche sono scarne, il problemaviene ancora affrontato più su base volontaria che con un vero e proprio piano del governo. Il centro pratica anche un esame per valutare la presenza di epatite o sieropositività. Ha 23 persone impiegate tra medici e paramedici. ,. a quanto sembra, una gran voglia di darsi da fare, una certa competenza e il desiderio di saperne di più magari col sostegno di qualche Paese (vedi Italia) che conosce il problema da tempo.

mercoledì 12 febbraio 2014

I misteri dell'aeroporto di Herat

L'italica trasparenza in fatto di affari all'estero è proverbiale. Tanto che è dalla stampa afgana che si apprende che lunedi “L'Afghanistan e l'Italia hanno firmato un accordo per 200 milioni di dollari di aiuto italiano, gran parte del quale verrà utilizzato per trasformare aeroporto di Herat nel più grande aeroporto cargo in Afghanistan. Il denaro – scrive oggi ToloNews - finanzierà inoltre la costruzione delle autostrade Herat Ring Road e Chesht-Herat. I progetti sono programmati per essere completati entro il 2017 e dovrebbero  finanziare la costruzione di una nuova pista e i terminal, nuove attrezzature per gli aerei e passeggeri, e la costruzione della grande aerostazione per i velivoli”.

Di questo progetto si sa poco o nulla e sul sito del ministero retto da Flavio Zanonato se ne dice ancor meno. Ci fu un certo attivismo, in realtà anche quello abbastanza mascherato, al tempo di Paolo Romani quando Passera, predecessore di Zanonato al Mise, gli affidò il dossier Afghanistan, notizia che suscitò non poche perplessità ma poi la cosa morì  li.


Ora, le nostre attività economiche in Afghanistan sono abbastanza misteriose: marmo, agricoltura, strade e aeroporto. Eppure è abbastanza per esserne fieri e strombazzarlea i quattro venti. Perché tanta opacità? Nemmeno uno straccio di comunicato ben in vista sul sito del Mise così che il cittadino sappia chi e come spende quei 136 milioni di euro. Forse è solo sciatteria, forse la proverbiale tradizione a tener lontani sguardi indiscreti. Chissà.


Per quel poco che sappiamo, con l’accordo di partenariato strategico tra i due Paesi, firmato da Karzai e Monti nel gennaio 2012, l'Italia si sarebbe impegnata per circa 150 milioni di euro (circa 200 milioni di dollari al cambio attuale) in crediti d'aiuto (procedura di prestito molto agevolato che per circa 2/3 del progetto prevede interessi zero e rimborso in 40 anni di cui 29 di grazia). L'investimento è finalizzato alla realizzazione di opere infrastrutturali nella provincia di Herat e cioè: la ricostruzione della tratta Herat – Chest-e-Sharif, con un costo stimato a 95 miioni di euro, e il rinnovamento appunto dell'aeroporto di Herat (55 milioni) per farlo diventare il secondo hub del Paese con un progetto elaborato dal Mise nel 2011 di cui però non siamo in grado di dirvi di più..

domenica 2 febbraio 2014

IL PRIMO SANGUE SULLE ELEZIONI AFGANE

Mancano due mesi esatti alle presidenziali afgane (oltre al rinnovo dei Consigli provinciali) la cui campagna elettorale inizia oggi, come annunciato dalla Commissione elettorale indipendente. La lista dei candidati alle presidenziali (le cui immagini di lista si possono vedere qui) presenta 11 profili più quelli del vice presidente che si presenta in ticket (vedi sotto).

Ma le cose non sono iniziate bene: stamattina alle 6 e mezza, due aiutanti di Abdullah Abdullah (nella foto a destra tratta dal sito di Pajhwok) sono stati .freddati a Herat da killer che li hanno raggiunto a bordo di una macchina e  hanno sparato. Shujahuden e Faiz Ahmad Hamdard - questi i nomi dei due appartenenti al team del candidato - sono i primi  morti  di una campagna che si annuncia tesa e per nulla scontata nei risultati.

Ecco la lista dei candidati
:
  1. Dr. Abdullah Abdullah
  2. Dawoud Sultanzoi
  3. Abdul Rahim Wardak
  4. Quayum Karzai
  5. Ashraf Ghani Ahmadzai
  6. Sardar Mohammad Nadir Naeem
  7. Zalmai Rassoul
  8. Qutbuddin Hilal
  9. Gul Agha Sherzai
  10. Abdul Rab Rasoul Sayyaf
  11. Hidayat Amin Arsala

domenica 1 dicembre 2013

LA CONFERENZA DI HERAT SULLA SOCIETA' CIVILE (La Videoteca di Amanullah)




Conferenza internazionale di Herat giugno 2013 "Afghan Civil Society in Transition: role, opportunities, challenges and expectations" organizzata da "Afgana" in collaborazione con Arcs e dal Comitato della società civile afgana, col sostegno del Mae

Girato di Romano Martinis
Montaggio Andrea Musi

giovedì 13 giugno 2013

IL FUTURO NELLA SFIDUCIA E NELLA SPERANZA DEGLI AFGANI

Qualche giorno fa abbiamo dato conto dell'intervento di Elizabeth Winter al convegno internazionale di studi sulla società civile afgana che si è tenuto ad Herat il 6 giugno, organizzato dalla rete Afgana. Al suo – che era per lo più un contributo teoretico - ne sono seguiti diversi altri tra cui quello di Giuliano Battiston, che di Afgana fa parte sin dall'inizio e per la quale ha già realizzato una ricerca precedente sulla percezione che gli afgani hanno del concetto di società civile.

Anche questa volta, benché il tema fosse altro e riguardasse aspettative e speranze ma anche la coscienza del proprio passato, Battiston ha cercato di riferire il punto di vista degli afgani o di quella che definiamo società civile afgana*. Cercheremo qui di riassumerne il focus essenziale prendendo spunto dal suo intervento pubblico a Herat. Il suo personale punto di vista Battiston invece lo ha sottolineato molto brevemente e riguarda la cornice attuale: per noi – dice il ricercatore di Afgana- la transizione rappresenta una grande occasione per introdurre più voci afgane nel processo di decisione politica, assenza che gli afgani per primi lamentano.

Dalla sua ricerca sembra infatti emergere e dominare una senso di sfiducia generale. Che non impedisce la speranza – dice Battiston – ma che rende gli afgani piuttosto disillusi: verso il governo, la comunità internazionale, i talebani. I primi due non sembrano in realtà metterci tutto l'impegno che la transizione e il processo di riconciliazione richiederebbero: agli afgani sembrano sbagliati gli strumenti e gli attori messi in campo dal governo che utilizza un approccio inappropriato e inefficace. Un approccio da “bazar” dove ognuno negozia la sua convenienza personale, ossia la sua agenda particolare e non quella del paese. Discorso in cui rientrano a pieno titolo anche i talebani, sulle cui mosse grava l'ombra e di agenti esterni che ne manipolano i piani. Infine questo mercato è lontano dagli sguardi della gente, è chiuso verso l'opinione pubblica. E' un mercato dove si negozia in segreto e che agli afgani intervistati non sembra dare frutti: ne emerge una figura del popolo afgano che lo disegna come molto cosciente sia della propria identità nazionale sia della scarsa trasparenza dei protagonisti attuali che di coscienza nazionale (intesa come interesse pubblico) non sembrano proprio averne. Così alla maggioranza degli intervistati i processi di reintegrazione e riconciliazione sembrano importanti e fondamentali ma anche inefficaci perché strumentalizzati politicamente dalle varie parti in gioco: il governo per farsi bello dei successi, i talebani approfittandone per fare cassa.

La sfiducia sembra generalizzata su più fronti. Dalla ricerca emerge un evidente timore delle agende di Iran e Pakistan e dunque la fiducia negli americani si brucia nel momento in cui si constata la loro scarsa pressione su Islamabad. Anche i talebani finiscono schiacciati dal peso del Paese dei puri. La ricerca, durata 4 mesi e condotta in 7 province, sembra raccontarci un Paese molto diverso da quello che conosciamo. Certamente Battiston tiene conto e riferisce di colloqui con un'intellighenzia ormai diffusa quanto ineludibile che forse non rappresenta tutto il paese nella sua complessità. Ma che sicuramente ne rappresenta la faccia più attenta e più impegnata civilmente (la società civile organizzata) tanto da restituirci, attraverso le tante testimonianze, un Paese che affronta il suo futuro con lucidità e con le idee chiare.
La pace ad esempio. Ci vuole - dicono gli afgani - un doppio approccio: un processo di pace condotto dall'alto e uno condotto dal basso, una “social peace” che renda effettiva la “poltical peace” delle istituzioni. Ma c'è anche la coscienza che troppi problemi irrisolti, specie se riguardano crimini passati e impunità, lasceranno una pessima eredità sul futuro di un Paese dove la vera pace non si potrà ottenere senza coniugarla alla giustizia. E qui torna la sfiducia. Si riuscirà a conciliare pace e giustizia? La maggioranza giudica questa opzione “irrealistica”.

* “La società civile afghana: pace, giustizia e aspettative per il post-2014” è il titolo della ricerca di Battiston alla conferenza internazionale “Società civile afgana in transizione: ruolo, prospettive, sfide, opportunità”cui hanno partecipato tra gli altri Mirwais Wardak (Afghanistan: PRTO, Peace Training and Research Organization) Elizabeth Winter (Regno Unito: LSE, London School of Economics), Fhiam Akim (AIhrc)

giovedì 6 giugno 2013

SOCIETA' CIVILE, ALLA RICERCA DI UNA DEFINIZIONE

La società civile in Afghanistan è un'invenzione occidentale? La domanda arriva diretta e tagliente. La fa Elizabeth Winter, una veterana della ricerca sulla società civile in Afghanistan, al convegno internazionale promosso dalla rete Afgana a Herat (“Afghani civil society in Transition: role, opportunities, challenges and expectations”) conclusosi oggi nella città afgana. Il provocatorio quesito che fa da titolo al suo intervento viene rivolto dalla ricercatrice un'attenta platea, per quasi metà composta da donne, in un'aula della facoltà di agraria. C'è un attimo di gelo pur nella temperatura torrida, poi alzano la mano in due: una giovane studentessa e un non più giovanissimo signore.

Winter cerca innanzi tutto di comporre una “definizione operativa” - dice – visto che ognuno usa questo termine un po' come gli pare. E dice che una definizione accettabile potrebbe indicare “individui e attori collettivi volontari, favorevoli a una crescita e sviluppo sociali della società che non ne comprometta la dignità. Insiste su due punti: la dignità e il fatto che società civile è anche l'individuo, non solo il gruppo associativo dunque. Ci deve essere – aggiunge – la componente non profit e quella culturale e l'articolazione in campagna e attività di sostegno a battaglie per i diritti. Ne fan parte a pieno titolo le Ong certamente, ma anche le associazioni culturali e professionali, quelle delle donne, sindacati, coalizioni e reti, imprenditori. E ritorna poi sull'elemento individuale: le persone singole, dice, sono il popolo.

La Winter alla fine non crede che la società civile sia un'invenzione occidentale: esisteva già prima in Afghanistan e utilizza valori condivisi anche dall'Islam, non è dunque in contraddizione e non è un'imposizione La società civile ha la sua ragion d'essere nei “valori umani”, quindi trasversali quindi impossibili da monopolizzare dall'Occidente o da chicchessia.
Convincente e preparata la Winter ha preparato anche una serie di “raccomandazioni” che ha però rimandato alla parte scritta del suo intervento che verrà data alle stampe con gli atti.

Fin qui la cronaca...

Un paio di punti mi lasciano perplesso: l'inclusione degli imprenditori che, per loro stessa natura, sono profit e che dunque mi paiono attori in contraddizione col concetto di volontariato. Certo possono essere solidali, ci mancherebbe, e soprattutto possono finanziare campagne e associazioni a fin di bene. Ma sugli imprenditori non può non gravare il sospetto che dietro ogni buona azione ci sia un obiettivo personale, di profitto. Se una campagna andasse contro i loro interessi non la finanzierebbero o smetterebbero di appoggiarla. Ciò li rende, mi pare un po' spurii. Quanto agli individui singoli, li si può certo includere nella società civile ma con qualche distinguo. L'individuo singolo non può mai fare molto e l'insieme dei singoli (popolo) può fare opinione ma non va oltre quella che è appunto l' “opinione pubblica”. La differenza a mio avviso la fa l'organizzazione. Quando il singolo membro della società civile cioè si associa con un altro. Punti di vista.

Per saperne di piu', il pezzo di A. Depascale su Il Punto

mercoledì 5 giugno 2013

IL CHI E' DELLA SOCIETA' CIVILE AFGANA


Si apre domani all'università di Herat il primo seminario internazionale di studi sulla società civile afgana, organizzato dalla rete Afgana (www.afgana.org) e da un consorzio di Ong, con capofila Arcs, nel quadro di un progetto finanziato dal ministero degli Esteri.
Il seminario “Società civile afgana in transizione: ruolo, prospettive, sfide, opportunità” è forse il pirmo incontro internazionale di studi sulla società civile afgana. Vedrà interventi, tra gli altri, di Mirwais Wardak (Afghanistan: PRTO, Peace Training and Research Organization) e Elizabeth Winter (Regno Unito: LSE, London School of Economicczds), considerati tra i più importanti ricercatori su questo tema.
Tra i relatori italiani, Giuliano Battiston, già autore del primo studio italiano sulla società civile afghana, presenterà i risultati della ricerca “La società civile afghana: pace, giustizia e aspettative per il post-2014”.

In questo stesso
contesto, sono stati realizzati anche i dibattiti che si sono tenuti nei giorni scorsi in diverse città afgane (Kabul, Mazar-i-Sharif, Jalalabad), organizzati dalle associazioni locali partner con il sostegno delle università delle città coinvolte. Negli incontri, alcuni esponenti della società civile italiana hanno discusso tematiche centrali per il rafforzamento del processo di democratizzazione del Paese come diritti, lavoro dignitoso, pace, conflitti, partecipazione attiva dei cittadini e rapporto con la rappresentanza istituzionale locale, beni comuni, legalità.

Queste attività
sono accompagnate da una mostra del fotografo Romano Martinis, con una lunga esperienza in aree di conflitto, che dal 2007 ha documentato in diverse zone del Paese i molti aspetti su cui la società civile è impegnata. Si tratta della seconda mostra esposta nel recentissimo centro ACKU (Afghan Center at Kabul University), inaugurato nel 2013 e frutto dell'impegno di Nancy Dupree, che ha donato alla fondazione 70mila documenti sull'Afghanistan, raccolti con il marito in decenni di lavoro.

Le associazioni sociali e italiane e le Ong aderenti alla rete Afgana riaffermano e rafforzano con queste iniziative il loro sostegno alle associazioni per i diritti umani, fondazioni di ricerca, reti di donne, Ong afgane, "terza forza" di un Paese stretto tra talebani e signori della guerra. Afgana auspica che il governo italiano, che ha contribuito al finanziamento di queste attività, continui a investire ancora sul processo di democratizzazione nel Paese e sul rafforzamento delle istanze sociali, pilastro di una vera ricostruzione e garanzia di diritti futuri dopo il ritiro militare. A tal proposito la rete Afgana ha lanciato alle forze politiche la proposta di riconvertire il 30% del risparmio ottenuto col ritiro militare in attività di cooperazione.

giovedì 2 maggio 2013

AFGHANISTAN: MI RITIRO MA INTANTO SPARO, ANZI BOMBARDO

Herat, 02 maggio 2013 – Con un’unica vasta operazione congiunta che ha visto sul campo uomini e mezzi di diverse unità dell’Esercito e dell’Aeronautica Militare in forza al Regional Command West (RC-W), i militari del contingente italiano di stanza a Herat hanno inferto nei giorni scorsi un duro colpo all’attività degli insorti distruggendo tre distinti ripetitori radio nella provincia di Farah, nella parte sud della regione sotto responsabilità italiana”. Comincia così il bollettino inviato oggi ai giornalisti dall'ufficio stampa difesa di Herat. Dunque ancora bombardamenti aerei, come si vede nella foto allegata.




A detta dei militari italiani questa apparecchiature erano nascoste “in una vasta area tra i picchi di alcune montagne rocciose”. Due ripetitori sono stati distrutti “attraverso il fuoco diretto dei cannoni a canne rotanti da 20mm di quattro elicotteri A-129 ‘Mangusta’” e dopo che “due elicotteri NH-90, prima di autorizzare l’apertura del fuoco, hanno confermato la posizione degli apparati e verificato che non vi fosse la possibilità di danni collaterali (zero civilian casualties: nessuna vittima civile)”. Rassicurante.

C'è anche un terzo ripetitore radio distrutto “mediante l’impiego di armamento a guida GPS impiegato da una coppia di velivoli AMX in forza al Task Group ‘Black Cats’ della Joint Air Task Force (JATF) dell’Aeronautica Militare”. Per dirla in due parole, gli Amx sono i nostri caccia (che hanno sostituito i Tornado) spediti in Afghanistan allo scopo di operazioni ricognitive. Poi sono stati armati e da questa estate sparano. Rassicurante?

La Difesa chiosa: “L’operazione rappresenta un felice esempio di coordinamento delle diverse capacità che il contingente italiano è in grado di esprimere sul territorio, al fine di rendere più sicura l’area e accrescere la fiducia della popolazione locale nell’abilità delle forze di sicurezza di contrastare la criminalità e gli insorti nell’attuale delicato periodo di transizione”. In una parola, i locali sono felici di questi bombardamenti, come si evince dalle manifestazioni di piazza o dalle rimostranze del governo afgano quando aihmé ci va di mezzo qualche civile. Ma qui pare che non sia il caso. Felice esempio di coordinamento. Assai rassicurante.

mercoledì 19 settembre 2012

IL BUON SENSO E LE VIGNETTE SUL PROFETA

Ho letto delle vignette di Charlie Hebdo mentre ero in viaggio per Kabul. Non ero ancora atterrato ad Herat, dove mi sono fermato per la notte, che la Tv le annunciava e oggi eccole che girano per la Rete. Per la verità qui in Afghanistan, dove Youtube è stato oscurato, il sito del magazine satirico non si apre (dicono sia stato piratato), forse perché bloccato dalle autorità locali. Mi è venuto da pensare, mentre ho sentito discettare in qualche chiacchierata estemporanea di libertà di stampa e dei valori della civiltà etc, che qualcuno ha ancora un po' di buon senso. Io, quando il mio cani beve nelle pozzanghere lo strattono via, e non mi sento un boia. Se vietavo ai miei figli di mangiare un chilo di fragole non mi sentivo di violare la loro libertà di scelta. E' solo buon senso.

Al direttore
di CH, augurandogli mille anni di libertà di espressione, vorrei dire dei rumor secondo cui in città si sta preparando qualcosa. Forse, dicono, all'università. Speriamo non ci siano vittime, violenze, ferite di cui questo Paese non ha bisogno. Ma chiederei a monsieur le directeur perché non viene a fare un salto domattina all'università per vedere l'effetto che ha fatto il suo colpo maestro anziché starsene a Paris a guardare soddisfatto le vendite (mi pare che anche l'onorevole Borghezio ne abbia comprate un certo numero di copie). E per verificare se, pourtant, non abbia aumentato le vendite di CH anche nella città dei quattro minareti. Secondo me sarebbero andate a ruba anche se temo che CH non sia distribuito. Ci avesse pensato prima, sai che affaroni...Buon senso, n'est-ce pas?

venerdì 24 febbraio 2012

CORANO E PROTESTE

Le proteste in Afghanistan nate dalla notizia del ritrovamento di alcune copie del corano bruciacchiate con un cumulo di immondizia dentro la base americana di Bagram, a Nord di Kabul, non si fermano. E anzi, nel tradizionale venerdì di preghiera, giorno sacro per i musulmani, si sono nutrite di nuovi incidenti e di nuove vittime. Quel che sembrava due giorni fa soltanto una fiammata di rabbia prende adesso il colore di una mini rivolta che ha trasferito la guerra dalla prima linea fin dentro la capitale o in altre città importanti come Herat, dove gli italiani hanno il comando della zona Ovest del Paese.

Il bilancio è fermo a dodici persone morte, sette delle quali proprio a Herat, dove una folla ha cercato di assaltare il consolato statunitense. A Kabul, invece, centinaia di persone hanno marciato verso il palazzo presidenziale di Hamid Karzai, scandendo slogan contro il governo e contro gli Stati Uniti. La polizia afgana ha sparato in aria per disperdere la folla e secondo il portavoce del governo Sediq Sediqqi, tre civili e due poliziotti sono rimasti feriti. Manifestazioni meno veementi nei modi ma non meno cariche di rabbia ci sono state anche a Ghazni, Nangarhar, Paktia, Kunar, Bamyian e Khost. Il governo afgano cerca di placare l’opinione pubblica chiedendo che i responsabili della dissacrazione del Corano siano processati pubblicamente e il generale John Allen, comandante delle truppe Nato, ha cercato di rassicurare gli afgani spiegando che la Nato e il governo «lavorano assieme per evitare che incidenti simili si ripetano».
Una commissione nominata dal governo Karzai ha descritto l’episodio come «vergognoso» ma ha anche lanciato un appello alla «calma e all’autocontrollo, vista la particolare situazione del paese». Per buona misura di sicurezza, però, a Kabul la polizia antisommossa presidia gli snodi principali della città e il personale dell’ambasciata statunitense, in stato di massima allerta, ha ricevuto istruzione di limitare al massimo gli spostamenti.

Forse nessuno prevedeva che, questa volta, le cose non sarebbero andate come in passato quando, a episodi del genere, corrispondeva qualche manifestazione di un centinaio di studenti o qualche fiammata di rabbia che, praticamente solo una volta (accadde nell'area settentrionale di Mazar-i-sharif nell'aprile 2011) era diventata una vera e propria battaglia urbana con morti e feriti (allora si disse pilotata dai talebani). A poco sono dunque servite le scuse degli esponenti sia americani sia Nato in Afghanistan, la presa di distanze del Pentagono o il messaggio di scuse scritto direttamente da Barack Obama al presidente afgano Hamid Karzai. E a poco è servito aver reso nota l'inchiesta interna o il fatto che i libri sacri bruciati siano stati il frutto di una grave sciatteria ancor prima che il gesto inconsulto frutto della stupidità di soldati statunitensi o mercenari d'appoggio (contractor) in forza alla base americana più importante nel Paese.

La vicenda ha del resto illustri precedenti, l'ultimo dei quali accaduto non molte settimane fa quando un video postato anche su Youtube, aveva mostrato dei marine americani mentre orinavano ridacchiando sul corpo senza vita di alcuni “insorgenti”, come vengono chiamati i guerriglieri talebani. Ma per un musulmano, insultare il Corano, è assai peggio che prendersi gioco della vita di un combattente ucciso. Allora infatti le reazioni furono contenute e, per parte talebana, si limitarono a un comunicato nel quale la guerriglia in turbante, confermando il suo giudizio sulle truppe di occupazione e le loro efferatezze, aveva però certificato che l'episodio non avrebbe ostacolato i negoziati in corso (tra americani, tedeschi e talebani) che, com'è ormai noto, si sono svolti sotto traccia per oltre un anno per arrivare, se tutto filerà liscio, all'apertura di un ufficio politico dei talebani a Doha, in Qatar.

Quando il sacerdote americano di una chiesa protestante aveva avuto la brillante idea di dare alle fiamme il libro del profeta, a parte il già citato caso di Mazar-i sharif dove un corteo dopo la preghiera si era trasformato nell'assalto di un'avanguardia a un compound dell'Onu, altre reazioni di “massa” alle offese occidentali si registrarono a Kabul e in altre città del Paese. Ma la cosa si limitò a qualche centinaio di studenti che, a Kabul e in altre realtà urbane minori, inscenarono proteste esauritesi senza gravi incidenti e qualche bandiera stellestrisce data alle fiamme senza provocare l'intervento armato delle forze di sicurezza governative.

Stavolta, l’ampiezza delle proteste segnala anche una crescente e diffusa frustrazione: atti come quello di Bagram evidenziano che, per una parte almeno dei militari stranieri, dieci anni non sono bastati per capire il paese in cui si trovano. E questo spiega se non tutti, certamente una buona fetta dei fallimenti politici conseguenti.

martedì 20 dicembre 2011

137 MILIONI IN GRAN SEGRETO

Sapevate che l'Italia ha prestato a Kabul 137 milioni di euro per sistemare l'aeroporto di Herat? Non son proprio noccioline di questi tempi, ma la notizia è passata solo in qualche scarna nota di agenzia. Il ministero delle attività produttive, che ha condotto la trattativa, non ne ha fatto parola chissà se per via della polemica scoppiata quando si era saputo che il ministro Corrado Passera si era tenuto come aiutante, anzi rappresentante personale per Iraq e Afghanistan, il suo predecessore: il forzista Paolo Romani.

La nomina era stata difesa da Passera per le passate virtù irachene e afgane di Romani. Anche se, incalzato dalle polemiche, quello per Paolo era sembrato un incarico a tempo. Per fortuna ci han pensato gli afgani con un comunicato dell'ufficio di Karzai. Quel che sappiamo è poco: che Romani ha presentato un master plan per la ricostruzione dell'aeroporto di Herat messo a punto da tecnici italiani e che per il progetto abbiamo prestato a Kabul 137 milioni (un credito d'aiuto probabilmente ma gli afgani non dicono di più) per il polo aeroportuale e la costruzione di un raccordo stradale di 28 chilometri. Quali sono i termini del prestito? Quali aziende italiane ci lavoreranno? Cosa c'era di tanto fondamentale nel lavoro di Romani che non potesse essere fatto da Passera stesso o da qualcuno meno compromesso con la vecchia guardia?

Chissà se almeno
sul sito del ministero, dove la parola "Afghanistan" produce come ultima notizia una roboante intervista di Romani a "Il Giornale", ci daranno la risposta. Far lavorare le nostre aziende in Afghanistan va bene. Ma perché tanto segreto? La tracciabilità non è la parola d'ordine del governo Monti?

anche su Terra

martedì 31 maggio 2011

ATTACCO ALLA FORTEZZA ITALIA

Cosa sia esattamente accaduto ieri a Herat ancora non è ancora perfettamente chiaro. La dinamica resta incerta ma l'effetto c'è tutto. Un altra fortezza della Nato viene violata dalla guerriglia che vi penetra all'interno, attacca, uccide, ferisce. Uno schiaffo su cui a metà giornata fa il punto il ministro La Russa perché questa volta la fortezza Bastiani è italiana e l'attacco è stato portato al cuore della presenza civile-militare italiana in Afghanistan: il Provincial Reconstruction Team (Prt) di Herat.

Con una conferenza
stampa al Senato convocata d'urgenza il titolare della Difesa chiarisce che “i soldati italiani feriti sono cinque, di cui uno grave. Si tratta di un capitano, colpito all'addome. Le notizie però sono incoraggianti” dice, ma invita comunque alla prudenza: “...dobbiamo accendere un cero, poteva andare peggio”, conclude biblicamente. I cinque feriti, dice il ministro, sono stati evacuati e trasferiti a Camp Arena nell'ospedale militare spagnolo Role 2 e tra i feriti c'è anche un italiano del ministero degli Esteri, in stato di choc. Aggiunge che, nell'attacco, sono stati uccisi molti talebani e alcuni poliziotti afgani: un “attacco complesso, con un mezzo carico di esplosivo che ha investito il muro di cinta, seguito da attacchi dei ribelli con armi dai tetti delle case civili che circondano il Pr” mentre la guerriglia attaccava anche altri punti della città. Il bilancio complessivo degli attacchi, aggiornato da fonti sanitarie locali, è di almeno cinque morti e una trentina di feriti. A pagare, alla fine, sono come sempre i civili afgani...

Continua su Lettera22

domenica 2 gennaio 2011

LA MORTE DI MIOTTO E QUALCHE DOMANDA SUL GULISTAN

Per la seconda volta nel giro di pochi mesi il Gulistan, la valle al confine con le zone più calde dell'Afghanistan e sotto giurisdizione italiana, fa un'altra vittima: nella mattinata dell'ultimo dell'anno, un cecchino ha ucciso il caporalmaggiore di Thiene Matteo Miotto, portando a quota 35 il bilancio dei militari italiani morti in Afghanistan.

La salma del soldato, trasferita oggi a Roma, sarà traslata, dopo la cerimonia pubblica di rito che si terrà lunedi nella capitale, nella sua città d'origine dove il soldato aveva chiesto di essere sepolto nell'area dedicata ai caduti di guerra del cimitero locale. Gli mancavano un pugno di giorni prima del suo rientro in Italia dove l'ennesima morte ha provocato le reazioni, altrettanto di rito, che contraddistinguono ormai un'attenzione all'Afghanistan che solo la morte scuote dal torpore. E tra le richieste di ritiro delle truppe e la conferma che in Afghanistan bisogna restare, il padre del militare ucciso pone alcune domande: “...mi hanno chiamato i suoi comandanti dall'Afghanistan dicendo che era stato colpito ad una spalla – ha detto Francesco Miotto - adesso si parla di un colpo che l'avrebbe raggiunto al fianco....ci sono delle versioni che non sono concordanti. Noi famigliari vogliamo capire cosa è successo”. Non è l'unica domanda legittima da porsi.

Il distretto del Gulistan è una zona impervia che si insinua tra i confini delle province di Ghor e dell'Helmand, quest'ultima tra le aree più calde dell'intero Afghanistan. E' uno degli undici distretti della provincia del Farah, provincia che, con quelle di Herat, Badghis, Ghor, rientra sotto la giurisdizione del Comando Nato Ovest a guida italiana. E' proprio nel Gulistan che è avvenuta nell'ottobre scorso la strage di quattro alpini (Sebastiano Ville, Marco Pedone, Gianmarco Manca e Francesco Vannozzi uccisi da una potentissima esplosione mentre scortavano con un Lince una colonna di mezzi civili). Abbastanza fuori dai giochi fino a qualche tempo fa, la valle del Gulistan, che non arriva a 60mila abitanti, militarmente non ha mai dato grossi problemi se non sporadicamente. Ma le cose sono cambiate. E il nome infatti, ignoto sino a qualche mese fa, adesso torna a farsi ripetutamente sentire.

Bisogna guardare una mappa e, attraverso la geografia, cercare di capire perché è un posto tanto pericoloso. Nella provincia di Farah, anche se la pressione dei talebani non è fortissima come in altre zone, sono stati soprattutto gli americani a darsi da fare con bombardamenti che hanno registrato, nel Farah e appena più a Nord della provincia e cioè nell'area Sud dell'Herat, alcune delle stragi di civili più note di tutta la guerra (a Shindand, nell'Herat meridionale, e a Bala Boluk, nel Farah centrorientale). Il comando Ovest, a guida italiana, riesce a tenere sotto controllo la regione ma, col passare del tempo, gli americani hanno chiesto agli italiani di fare di più. Di spingersi dunque nelle aree più calde, alcune delle quali al confine con la provincia di Helmand, dove si trova il Gulistan. Ma non è un'operazione facile “sigillare” il Farah dalle infiltrazioni talebane. E, soprattutto, non è facile farlo in un territorio in cui gli americani hanno fatto terra bruciata per passare poi la mano agli italiani.

Al deteriorarsi della situazione generale, corrisponde dunque anche un peggioramento di quella sui fronti caldi tra cui molto probabilmente c'è anche il Gulistan dove, secondo alcune fonti, non c'è solo la pressione talebana o quella della criminalità afgana, ma dove si muoverebbero anche gli iraniani che cercano in qualche modo di controllare seppur indirettamente le zone al confine col proprio Paese. Stringendo rapporti, sostengono a Kabul, con parte della guerriglia cui viene fornito training ed esplosivi. Ipotesi. Ma che dicono come il Gulistan sia un po' più che un nome della geografia del paese.
La domanda da fare è dunque in quali condizioni operano i soldati italiani. E se e per quali motivi il Gulistan è diventato tanto pericoloso. Se è vero che abbiamo ricevuto una pessima eredità difficile da aggiustare e se la nostra presenza in quelle aree, che consente agli americani un impegno maggiore in altre province, non è effettivamente un fattore di rischio in più per chi ha preso in consegna quella regione.

giovedì 11 novembre 2010

PASSAGGIO DI CONSEGNE

Sono dodici le province afgane che, nel giro di un anno, potrebbero passare di mano dal controllo Nato a quello delle forze di sicurezza afgane. La lista è stata presentata ai partner europei dal Rappresentante civile della Nato a Kabul, il britannico Mark Sedwill, nelle riunioni a porte chiuse in preparazione del vertice di Lisbona del 19 novembre, nel quale l'Alleanza, sulla scorta delle indicazioni americane, potrebbe lanciare un segnale inequivocabile, anche se indiretto, sull'inizio del ritiro delle truppe dall'Afghanistan.

Stando a quanto riferisce il memo di uno dei Paesi aderenti all'Alleanza la lista consta di due gruppi di province sulle quali sia la Nato sia l'Ana, l'esercito afgano, avrebbero trovato un'intesa. Non ci sarà Herat, la zona a comando italiano, nel primo gruppo di province – Bamyian, Badakhshan, Daykundi, Panjshir, Samangan, Sari Pul e ovviamente Kabul che di fatto già lo è - che passeranno sotto consegna afgana entro sei mesi; ma la provincia che ospita il comando Ovest sarà tra quelle il cui passaggio è previsto entro un anno accanto a Faryab, Laghman, Parwan e Takhar. L'accordo ormai in dirittura d'arrivo dovrebbe avere luce verde definitiva al vertice di Lisbona ed è ovviamente suscettibile di cambiamenti dell'ultima ora. Ne è chiaro da quando partiranno i sei/12 mesi: se dall'inizio dell'anno o dall'estate 2011, quando gli americani inizieranno il ritiro deciso da Obama per il mese di luglio (secondo il ministro La Russa il disimpegno potrebbe avvenire entro il 2011).

Non è neppure detto che il vertice di Lisbona formalizzi il “ritiro” ma è evidente che la messa in chiaro del passaggio di consegne di 12 province su 34 indicherà chiaramente che la famosa “exit strategy” sta per avere inizio.

Alcune province e tra queste alcuni distretti (la cui lista viene rigorosamente tenuta segreta) presentano non pochi problemi: il Daykundi ad esempio, dove la presenza talebana è attiva. Ma mentre la Nato prepara il suo piano, va avanti anche quello fortemente voluto dal generale americano David Petraeus, e cioè la nascita di una milizia speciale, una sorta di polizia locale (Afghan Local Police o Alp) creata tra mille polemiche con un decreto di Karzai il luglio scorso: secondo il portavoce degli Interni Zemarai Bashari, avrebbe già iniziato a dislocarsi nelle prime tre province tra cui, assieme a Kandahar e Uruzgan, c'è proprio quella di Daykundi (distretto di Kajran). Ma la decisione finale dipende anche dal grado di avanzamento di quello che per la Nato rappresenterebbe anche una fase di transizione dei Prt (Provincial Reconstruction Team), centri di cooperazione civile-militare (sinora soprattutto se non esclusivamente militare) che dovrebbero adesso cambiar pelle e diventare centri di coordinamento e sviluppo di attività civili. Che hanno però gradi molto diversi di avanzamento su questa possibile trasformazione di avamposti che, in alcune province, sono poco più che caserme dalle quali si riceve qualche finanziamento per attività di sviluppo.


Che la zona sotto comando italiano sia tra le prescelte non è un mistero: pubblicamente annunciata anche dalle autorità Nato come una delle aree più avanzate sotto l'aspetto sicurezza/sviluppo, è stata oggetto anche dei recenti commenti del ministro Frattini e del Capo di stato maggiore della Difesa: “Per la consegna agli afgani delle responsabilità delle operazioni militari nella parte occidentale del Paese, dove abbiamo il comando, il 2014 è una data perfino lontana...”, ha detto qualche giorno fa il capo di stato maggiore della Difesa Vincenzo Camporini. E, qualche giorno dopo, gli hanno fatto eco il suo omologo americano Mike Mullen e il capo del Pentagono Robert Gates, secondo cui il “piano Karzai” per il 2014 è assolutamente “realistico”. “Uno dei punti in agenda a Lisbona – ha sottolineato – sarà l'appoggio al trasferimento della responsabilità per la sicurezza agli afgani nel 2014”.

Uscita per la prima volta in luglio alla “Conferenza di Kabul”, la data del 2014 era sembrata ad alcuni soltanto il tentativo di “spostare” più avanti quella del 2011, promessa da Obama come inizio del ritiro americano. E in questi mesi il tira molla tra falchi e colombe nell'Amministrazione americana è andato avanti senza tregua. Tanto da far scrivere due giorni fa al Washington Post che la revisione della strategia americana per l'Afghanistan che, perfezionata a Lisbona, sarà presentata a fine dicembre o ai primi di gennaio da Barack Obama, prevede aggiustamenti ma non un piano “B”. L'exit strategy è già cominciata.

sabato 17 luglio 2010

IL MESTIERACCIO DELL INVIATO

Brutta bestia il mestiere dell'inviato! Del resto si potrebbe anche dire, nel mio caso, che nessuno me lo ha chiesto di venire sin qui dove, davanti alla finestra del mio balcone, campeggiano una quarantina di sacchetti di sabbia e sotto, alla porta di ingresso, ci sono un paio di Ak47 che, sommati a quelli nella via antistante il mio albergo, fa una densità di armi a metro quadro che mi dà allo stomaco.

Ma la passione non smette di bussare al cuore di un mestiere che continua a piacermi e che, all'estero, mi riempie di adrenalina, appena un po' meno di qualche anno fa quando, un po' più ansioso e smanioso, il solo varcare l'uscita dell'aeroporto mi faceva fremere come un'amante alla sua prima uscita con la donna di cui si è invaghito.

Come nei grandi amori, col tempo, la passione forse si raffredda un po' ma non si spegne. Controllate il vostro taccuino, se avete la penna e il telefono carico, due spicci in tasca e le pile nel registratore. E via, per la città dolente in cerca di notizie. Il bello è che, girato l'angolo, ne trovate subito una. Il caso gioca la sua parte assai più del fiuto e poi c'è la curiosità, l'annotazione silenziosa di quell'immagine, la frase carpita per strada, la battuta rivelatrice. Elettrizzati, correte di qua e di là fino a che, ma ci son due ore e mezza di vantaggio sul fuso orario italiano, non viene il momento di scrivere, di ordinare le idee e metterle in file, di coniugare le notizie con l'analisi e, soprattutto, il buon senso, l'unico porto sicuro nella mare di fesserie che la propaganda vi propina quotidianamente in una paese in guerra.

Ma la vostra personale battaglia, subito dopo, è con Roma o con Milano. Con i desk dei giornali da cui dipende (ormai sempre di meno) parte del vostro salario. Con i capiservizio che, poveretti anche loro, devono fare i conti con la maledizione delle notizie e che oggi, per voi, non hanno spazio.

Da che sono a Kabul, il meglio di quel che ho scritto giace nel cassetto di qualche redazione. Se non avessi un blog dove rovesciare la mia logorroica esposizione dei fatti finirei per implodere. Per un giornalista, scrivere è come la caccia per la leonessa. Ma vedersi pubblicare il pezzo è il vero trofeo che portate a casa. L'orgasmo della vostra masturbazione intellettuale o del rapporto, intimissimo, che si è stabilito tra voi e la realtà. Come la leonessa però, avete vinto solo se il pezzo va in pagina, così come lei, dopo la corsa, può pascersi delle carni della bestia che ha catturato. Così restate frustrati se non accade nulla, se la vostra notizia (la “vostra” notizia non quella ricopiata dalle agenzie) non trova spazio e, come si dice in gergo, si brucia. Come una sigaretta che non viene aspirata ma si consuma sottoposta alle leggi della chimica.

Ieri però hanno ferito tre poveri cristi con la divisa italiana nell'Herat e allora tutti si svegliano. Ti chiamano, vogliono il pezzo di giornata anche se tu sei a Kabul, non a Herat. Non hai visto niente e ne sai meno di un collega che, stando in Italia, può parlare con lo stato maggiore e carpire qualche dettaglio. Poveri soldati. Poveri giornalisti. Attori entrambi di un teatrino demenziale. Io ci ricavo però che i miei pezzi nel cassetto usciranno d'appoggio alla cronaca di giornata. Che grazie a Dio ieri ha fatto qualcun altro

domenica 3 maggio 2009

SE LA DINAMICA NON TORNA

A volte sono le domande più stupide ad aprire scenari di riflessione. Leggete con me questa agenzia nella quale ho sottolineato in grassetto alcune frasi:

AFGHANISTAN: SCONTRO A FUOCO CON PATTUGLIA A HERAT, UN MORTO = TOYOTA COROLLA BIANCA LANCIATA A FORTE VELOCITÀ CONTRO MILITARI Herat, 3 mag. - (Adnkronos) - Un cittadino afghano è morto e altri tre sono rimasti feriti in uno scontro a fuoco con una pattiglia dell'Omlt (Operation mentoring liason team) che opera nella zona di Herat. Alle 11,00 locali, 8,30 ore italiana, si legge in una nota dell'Ufficio pubblica informazione del Regional Command West di Herat, una vettura Toyota Corolla Bianca Sw si lanciava a forte velocità verso una pattuglia dell'Omlt (Operation mentoring laison team) che opera nella zona di Herat. I militari hanno prontamente e correttamente attuato tutte le procedure di segnalazione previste dalle procedure di impiego. Dato che la vettura continuava la propria corsa, nonostante i segnali luminosi ed i colpi di avvertimento, i militari hanno fatto fuoco sul vano motore. Nello scontro, afferma la nota, è deceduto un cittadino afghano ed altri tre risultano essere feriti. Il tipo di vettura Toyota Corolla Bianca Sw rappresenta una delle macchine maggiormente segnalate come possibili vetture utilizzate come autobombe. Sono al momento in corso tutte le indagini del caso ad opera degli organi di polizia militare del Comando di RCW. (Ses/Col/Adnkronos) 03-MAG-09 13:36 NNN

a parte il titolo che dà per buona la versione, adesso guardate questa foto pubblicata dal sito di Repubblica.

Cosa c'è che non torna? La prima versione dei fatti diceva che la Corolla bianca (per inciso la macchina più diffusa per marca e colore in Afghanistan) procedeva nell'altro senso di marcia, dunque non si lanciava affatto. Andava solo forte come tutti fanno da queste parti. Chissà magari erano in ritardo o andavano in ospedale. Ma magari mi sbaglio io, magari procedevano in mezzo alla strada o nella direzione del convoglio italiano. Non sono dietrologo per forza. Dunque i militari fanno segnali ma l'auto non rallenta. Prima domanda: chi ha spiegato agli afgani come funziona il sistema di segnalazione di Isaf? Io, ad esempio, non lo so. Ma fin qui...tutti sanno che quando Isaf fa rumore è meglio spostarsi anche se non tutti lo fanno sempre. Ma la questione vera riguarda il fatto che, per fermare l'auto, i militari italiani hanno sparato sul cofano, sul vano motore. Però la foto mostra il cofano posteriore: si vede il foro del proiettile e anche il vetro a pezzi e persino una chitarra (...un'arma terribile se impugnata per il manico...)
Allora non capisco. E non capisco perché il comunicato debba mentire. Si, mentire. Il motore nelle Corolla sta davanti...Delle due l'una: o hanno sparato a ripetizione davanti e dietro. O il comunicato non dice la verità, una verità banalissima per altro. E cioè che non hanno sparato sul motore. Non saprei... Ritratteranno più tardi?

Io non sono un esperto di balistica e certo posso sbagliare ed eserciterei il beneficio del dubbio se non avessi sentito al telegiornale che, secondo le autorità militare, sarebbe stato sparato un colpo solo. Un colpo solo? Mm...ma avevano un vecchio Enfield o una mitragliatrice?

Un giornalista diventa sospettoso quando una verità banale viene nascosta. E' la prima regola: dite la verità, magari non tutta, ma se dite una balla si diventa sospettosi. In attesa di lumi una bambina è morta. E domani un nugolo di parlamentari, di destra e di sinistra, andranno a inaugurare un orfanotrofio e un ospedale pediatrico ad Herat che i militari hanno messo in piedi (per la verità non da soli ma questa è un'altra storia). Cose per bambini. E' amaro ma vien da commentare: ti sparo, ma dopo ti curo. E se capita che muoiano i tuoi genitori c'è anche il posto dove farti dormire...

Sarebbe meglio, l'ho sempre scritto, che i militari facessero i militari e basta. Così danneggiano anche chi non è militare e si da da fare in ambito umanitario. Generale, colonnello, capitano, lasciate satre gli orfanotrofi e gli ospedali e insegnate ai vostri sottoposti a non uccidere gli innocenti. Sono sbagli gravi magari, volgio credere, dovuti al fatto che la tensione fa saltare i nervi sempre tesi in zona di guerra.
Come ha commentato il ministro La Russa infatti: Sono purtroppo le terribili evenienze che non possono essere mai escluse quando si opera in un teatro così difficile e pericoloso. Ecco appunto, un teatro che richiede nervi saldi caro ministro. Gli orfanotrofi lasciateli fare agli ingegneri civili e voi occupatevi senza retorica di fare bene la guerra. Che credo non dovrebbe contempalre la morte di bambini innocenti

mercoledì 29 aprile 2009

IL COLORE DELL'UMANITARIO

Qualche giorno fa, per andare a visitare il Provincial Reconstruction Team di Herat (i Prt sono strutture di ricostruzione civile-militari), ho dovuto vestire giubbotto antiproiettile ed elmetto. Cosi vogliono le regole ed, essendo io ospite del contingente italiano di Herat, ho accettato seppur malvolentieri la mascherata.Ma mi sarei aspettato di andare con un mezzo militare. Invece no: vedo che i militari, bardati e armati di tutto punto, utilizzano auto bianche e senza insegna. Le stesse che di solito utilizzano nazioni unite e in genere gli umanitari. Sapevo di questo spiacevole ennesimo caso di confusione tra ruoli ma quando ci si trova in mezzo è diverso. Salite su un'auto militare truccata da civile con tutti i rischi che ciò comporta. E vi bardano come un soldato. A qualcuno forse diverte, io (e con me Romano) ero profondamente a disagio. Cosa penseranno quei vecchi che mi vedono scendere con elmetto e giubbotto da quest'auto bianca? Non certo che sono un giornalista in servizio permanente effettivo...La visita al Prt è stata istruttiva, ma questa è un'altra storia. Mi soffermo invece sulle auto bianche perché c'è una novità importante.

Entro il primo di giugno tutti i veicoli bianchi della Nato, i mezzi civili e senza insegne usati dai militari e identici a quelli tradizionalmente utilizzati dagli operatori umanitari, dovranno cambiare colore. A dirlo questa volta, dopo le reiterate richieste delle Organizzazioni non governative e degli ambienti umanitari, è la Nato, nella persona di un alto ufficiale, per pura casualità, italiano: il generale Marco Bertolini che, oltre ad essere a capo dello staff del quartier generale di Isaf (la forza multinazionale della Nato in Afghanistan) è anche il “National Senior Representative” italiano all'interno della coalizione, ossia il “decano” di riferimento per gli alti gradi italiani nel paese.

L'intera notizia, che ho scritto ieri per il manifesto la trovate per esteso su Lettera22. Ma ci tengo a riferire la riflessione finale dell'articolo: il documento dice che la responsabilità della Nato può solo riguardare i “suoi” veicoli, e cioè una ristrettissima minoranza. Trattandosi però di un documento ufficiale è lecito ritenere che al massimo si farà un po' di “melina” ma che poi tutti i paesi si dovranno adeguare. A iniziare dall'Italia che di questi mezzi fa largo utilizzo.

Forse sarebbe un'occasione per le nostre forze armate impegnate nel paese, un contingente di 3mila uomini che presto diverranno 3400 per seguire le elezioni, di dare il buon esempio, ritinteggiando tutti i veicoli civili entro il primo giugno, seguendo alla lettera le indicazioni del Quartier generale. Per una volta sarebbe davvero facile fare i primi della classe. Senza grande fatica e dimostrando veramente sensibilità ai temi dell'umanitario e ai suoi principi fondativi: primo fra tutti quello della neutralità.

Nelle due foto, veicoli bianchi fotografati a Kabul da Romano Martinis

domenica 26 aprile 2009

LA GUERRA IN SANDALI O CON L'ELMETTO

Non ero mai stato prima in una caserma in Afghanistan. Non, almeno, un tempo cosi lungo per far caso che una caserma, la “casa” della guerra, è il luogo dove si capisce come mai questa guerra non sarà mai vinta: né dagli occidentali, né dai talebani. La macchina occidentale della guerra è ben oliata e organizzata: grandi mezzi, tecnologie all'avanguardia, sistemi d'arma sofisticati e veicoli d'ogni tipo. Divise in ordine e una buona logistica. Come farà una guerriglia stracciona in sandali ad avere ragione di questa macchina quasi perfetta? Si, certo, in campo aperto, tra attentati e agguati, i sandali fanno premio sulla mimetica (nel senso che i talebani son certo più agili di questi soldati pieni di orpelli alla GI-Joe) ma la battaglia finale non riuscirebbero a vincerla. Per prendere una caserma come quella in cui sono ospite a Herat, o ci butti una valanga di bombe o nisba.

Ma, dall'altra parte, la caserma è anche il segno evidente del perché non vincerà la Nato. Tutto è così lindo e organizzato da far pensare a una scuola quadri: un centro di addestramento perenne dove la guerra vera non si fa. E persino i soldati (fortunatamente) non son più quelli di una volta. Assomigliano più a uomini che ad eroi e questo nuoce alla guerra cui siamo stati abituati. Si fanno la doccia, vanno a mangiare, bevono caffè corretto nel baretto dell'angolo (della caserma). Non vedi quei marine alla J. Wayne, sudati e sporchi con l'olezzo della polvere da sparo. Qui semmai c'è odore di sudore da troppo caldo e profumi di varechina nei cessi lindi come in un collegio. Oggi poi, nessuna democrazia è in grado di sacrificare i suoi soldati: subito ne nasce una polemica se non erano protetti o non avevan qui, non avevan là. E' giusto che sia così ma ciò non fa bene alla guerra anche se dà garanzie alla pace. Maq a un tempo nuoce alla guerra la retorica pacifista. Non tanto quella dei pacifisti quanto quella dei militari stessi. Questi eserciti moderni la guerra - specie se asimmetrica – la perdono per default. Non abbiamo più armate di cow boy ma damerini in divisa, persino eleganti in queste mimetiche che il deserto lo devono veder raramente. E' quel che insegna la caserma. Ma c'è dell'altro.

Le guerre si vincono col consenso e nessuno dei due contendenti ce l'ha. Non ce l'abbiamo noi che con una mano facciamo scuole e con l'altra bombardiamo i civili. Non ce l'hanno i talebani che restano un regime odiato dai più e da quelli che hanno memoria dei loro eccessi ma....sul lungo periodo a guadagnare sarebbero loro: intanto sono afgani e noi stranieri. Eppoi, dove il fragile stato di Karzai non c'è, suppliscono ai servizi essenziali: giustizia, educazione (si anche educazione perché una madrasa è pur sempre una scuola), amministrazione pubblica. Fan ciò che serve e, in molti casi, con onestà. Sul lungo periodo ce la farebbero loro. Per consenso indotto, non per adesione ai loro ideali. Perché non c'è di meglio e l'Occidente di meglio non sa fare. Ecco perché è il momento di negoziare. Siamo stanchi noi ma lo sono anche loro. E nessuno avanza di un metro. Si tengono le posizioni, come nella caserma Arena di Herat. Dove il mio pernottamento è stata un'altra lezione di pragmatica verità cullata dalla generosità e attenzione di questi nuovi militari, più uomini sulla linea del fronte che soldati. Per fortuna, dal mio punto di vista. Quello di uno a cui la guerra non piace per niente.

sabato 25 aprile 2009

LUOGHI DI PENA E DI DOLORE

Herat -Devo a due militari se sono entrato in una prigione afgana. Non in stato di arresto, per fortuna. Il colonnello italiano Brandomisio e, soprattutto, il generale afgano Sadiqui ci hanno permesso di visitare il carcere di Herat, 1500 persone ai ferri ma in una galera parzialmente "aperta" dove ci sono diverse sezioni di lavoro: tappeti, sartorie, persino un parrucchiere. Abbiamo visto una cinquantina di detenuti e nulla sappiamo degli altri 1450, ma l'impressione non e' stata delle peggiori. Non so nulla delle celle, ne' degli interrogatori, ne' delle reali condizioni della vita carceraria ma mi ha comunque stupito che il generale facesse vedere il carcere a un gruppo di giornalisti e di militari italiani. Subito dopo siamo andati in un orfanotrofio e in un carcere femminile in parte finanziati dalla cooperazione italiana e da quella militare.

Luoghi di pena e di dolore
dove si vive un dramma quotidiano che, a tutta prima, nemmeno si vede. Ma ad un certo momento mi son sentito proprio fuori posto. Cosa ci faccio qui a partecipare superficialemnte di un dolore che non posso certo attenuare raccontandolo? Mi son seduto in disparte aspettando che la visita finisse. Troppo persino per il mio professionale cinismo