Qualche giorno dopo il massiccio attacco di aprile, una gran pioggia ha finalmente fatto depositare la polvere che, come una cappa, avvolge continuamente una città ormai cresciuta a dismisura e dove il manto stradale è, in gran parte di Kabul, ancora una mera aspirazione. La pioggia è arrivata qualche giorno dopo la clamorosa azione dei talebani in pieno centro, davanti al parlamento e nell'area del carcere, coordinata con altri attacchi in almeno tre province del Paese: la cosiddetta “offensiva di primavera” largamente annunciata. Ma la città sembra aver accusato il colpo rapidamente, aiutata dalla pioggia che ha fatto un po' di pulizia. E' rimasta paralizzata per 18 ore durante gli attacchi (i “martiri” non si arrendono e dunque snidarli – ossia ucciderli – richiede tempo) e sensibilmente svuotata, il giorno dopo, come in un dì di festa. Ma nel giro di 24 ore la normalità ha ripreso il sopravvento come se ormai si sia messo in conto che, ogni tanto, può accadere. Un atteggiamento fatalista che emerge anche tra i sondaggi che denunciano disillusione e amarezza con un affievolimento delle speranze di pace e di benessere che avevano accompagnato i primi anni dell'arrivo della Nato in Afghanistan.
Gli analisti, come ritualmente avviene, si sono preoccupati di commentare le dichiarazioni ufficiali che, abbastanza rapidamente, hanno fatto slittare la condanna da una generica accusa ai “talebani” a una più mirata responsabilità della Rete Haqqani, la fazione più radicale, più qaedista, più vicina all'Isi pachistano del movimento dei turbanti. In effetti la tattica dell'attacco e le modalità di esecuzione confermerebbero un'ipotesi che viene tradotta come l'esclusione degli Haqqani dal negoziato che, nonostante lo stop ufficiale dei talebani – irritati dalle polemiche americane sul trasferimento di alcuni detenuti da Guantanamo nella città qatariota di Doha – non sono del tutto naufragati. Questa lettura insiste sul timore degli Haqqani, che la rete “concorrente” dell'Hezb-e-Islami (Gulbuddin Hekmatyar) e la shura di Quetta (il Gran consiglio dei talebani di mullah Omar) li lascino fuori dai benefici di un eventuale negoziato. Oppure che gli Haqqani abbiano, con questa azione, segnalato una forma di pressione del Pakistan sul negoziato stesso, dal momento che è nota l'irritazione di Islamabad nei confronti dell'intera trattativa sul famoso ufficio di Doha (l' “ambasciata” talebana da aprire all'estero) che sarebbe stata condotta senza di loro. Ma è una teoria che non convince.
Antonio Giustozzi, uno dei migliori conoscitori della realtà talebana, ha diffusamente spiegato in una lunga intervista a Giuliano Battiston (il manifesto, 19 aprile ) che considerare gli Haqqani “altro” dal movimento è “fuorviante”. Una lettura che condividono anche i ricercatori di Afghanistan Analysts Network (Aan), uno dei più autorevoli think tank della capitale. Non si può insomma, sostengono gli analisti, considerare la galassia talebana come un insieme formato da fazioni indipendenti, per quanto disomogenea e sottoposta, come ogni grande movimento, a una dialettica interna. Gli Haqqani dunque sarebbero solo una parte del tutto e con una limitata autonomia. Infine il movimento tende comunque a “coprire” anche le azioni non direttamente programmate dalla shura di mullah Omar. Giustozzi va più in là: sostiene – ci dice quando lo incontriamo in caffé della capitale - che l'azione dei giorni scorsi rende evidente, non tanto uno scontro tra fazioni quanto, tra direzione politica (Quetta) e direzione militare (Peshawar). Questa sorta di comitato strategico militare di creazione relativamente recente (2010) nella città settentrionale capoluogo delle aree tribali del Pakistan, rappresenterebbe al momento i contrari al negoziato: i delusi da un processo che si è subito arenato appena la vicenda dei prigionieri di Guantanamo è arrivata alle orecchie del Congresso, suscitando un dibattito negli Usa che ai talebani non è affatto piaciuto. Gli uomini di Peshawar sarebbero dunque inclini a tenere elevato il livello dello scontro, sia “per tenere alto il morale della truppa”, aggiungono gli analisti di Aan, sia perché “contrari al negoziato”, sostiene Giustozzi, secondo cui i favorevoli alla trattativa sarebbero adesso in minoranza: la vecchia guardia di Quetta, i turbanti più “politici” e più inclini al negoziato, sarebbe dunque in difficoltà.
Certo è che l'attacco dei giorni scorsi, sia che fosse un segnale contro il negoziato, sia che volesse in qualche modo segnalare o ribadire che la guerra è tutt'altro che finita e che deve considerare questo o quell'interlocutore, non sembra aver portato molta acqua al mulino della guerriglia. Forse sì all'interno delle dinamiche che attraversano il movimento, ma poco come risultato politico generale nonostante il roboante effetto mediatico di cui la stampa nazionale, ma soprattutto internazionale, si fa spesso supinamente interprete con titoloni allarmistici che amplificano la portata dell'evento. In realtà il maggior beneficiario dell'intera vicenda sembra esser stato proprio il nemico numero uno dei talebani: il presidente Hamid Karzai. Karzai ha aspettato, con l'acume politico che lo contraddistingue, che la battaglia finisse. Silente durante le quasi venti ore di scontro, appena ha avuto in mano dati sicuri (ad esempio il non elevato numero di civili uccisi. Otto in tutto, di cui quattro a Kabul) ha messo in campo una convincente strategia di comunicazione. Intercettando il “bisogno di eroismo” della capitale, come sostiene Fabrizio Foschini di Aan, Karzai ha sottolineato quello dei suoi soldati: poliziotti, militari, funzionari dei servizi che si sono sacrificati per la sicurezza della città. Pur non risparmiando le critiche all'intelligence afgana (uno degli edifici utilizzati dal commando si trova di fronte a una sede periferica dell'Nds, la Direzione nazionale per la sicurezza), il presidente ne ha approfittato per dare la colpa alla Nato. O, meglio, ha messo in luce il fatto che ormai l'aiuto degli stranieri si è ridotto così tanto che sono ormai le forze di sicurezza afgane la vera tutela dei cittadini.
Il presidente sta giocando d'anticipo: ha di fronte il summit Nato di Chicago e soprattutto la fretta malcelata di un rapido ritiro americano e, in sequenza, degli altri partner dell'Alleanza. E cerca di sfruttarlo. Le truppe se ne andranno entro il 2014? Karzai dice che si potrebbe pensare al 2013. Gli americani hanno fretta di concludere l'accordo di partnership strategica con Kabul? Bene, purché accettino, pur se obtorto collo, le richieste afgane, come in gran parte già avvenuto (trasferimento dei detenuti a Bagram sotto giurisdizione afgana, fine dei raid notturni dell'Alleanza e degli americani. Resta solo la trattativa sul futuro delle basi). A che gli serve tutto ciò?
La sensazione è che Karzai stia preparando il dopo Karzai con un altro Karzai. Non un Karzai bis che la Costituzione gli vieta, ma una sorta di interim a qualche amico fidato che magari gli dia occasione di ripresentarsi dopo. Al momento la Costituzione gli vieta di ricandidarsi ma non è chiaro se, dopo un intervallo, ci si possa ripresentare. E poiché Karzai sembra favorevole ad anticipare le elezioni (il che richiede comunque di mettere mano alla Costituzione) ecco che, dicono i maligni, una volta cominciato a ridisegnare i punti della Carta che regolano la data per le presidenziali (per non farle coincidere nel 2014 col ritiro occidentale), si potrebbe anche prevedere una clausola che cambi le regole del gioco e gli dia la possibilità di ricandidarsi a un terzo mandato. Ipotesi.
Come che sia, a Kabul già girano i nomi del futuro candidato. Farooq Wardak, ad esempio, attuale ministro dell'Istruzione, personaggio che tra l'altro non sarebbe indigesto a Islamabad. Ballon d'essai? Può darsi come spesso accade quando nomi, ipotesi o date cominciano a girare con insistenza. Ma qualcosa si sta muovendo rapidamente. Anche il Pakistan non sta con le mani in mano. Tutti concordano nel dire, Haqqani o non Haqqani, che dietro l'ultimo attacco c'è lo zampino del Pakistan che ha fretta di chiudere la partita e sta in ogni modo cercando di condizionare questa fase del Grande gioco, da sempre oggetto di più di un appetito. Appetito di cui si può rimanere anche vittime, per volontà o per caso: i talebani hanno fatto avere le loro scuse al Giappone (che non ha militari in Afghanistan) per aver colpito, erroneamente nel recente attacco, anche la sua sede diplomatica. La dimostrazione di un'attenzione politica molto significativa.
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