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domenica 8 luglio 2012

TUTTI GLI IMPEGNI DI TOKYO

Fino all'ultimo quel che mancava sul documento finale preparato per la Conferenza di Tokyo sull'Afghanistan, è stata la cifra che i 70 paesi presenti si sarebbero impegnati a sottoscrivere oggi. Poi nel pomeriggio l'accordo e, ieri sera, la comunicazione del ministro degli esteri nipponico Koichiro Gemba: oltre 16 milioni in quattro anni a colpi di 4 fino al 2015. Di questi 16, tre li garantirà Tokyo stessa ma fino al 2016 e con questa percentuale: due terzi per la ricostruzione, un terzo per la sicurezza. Poi si vedrà. La cifra e l'impegno temporale saranno ufficializzati oggi nella capitale nipponica e per ora di certo c'è che, se la comunità internazionale è disposta a dare a Karzai la cifra che ha chiesto per quattro anni, dopo quella data il futuro resta incerto. L'appoggio politico alla ricostruzione è scontato per almeno dieci anni, quello finanziario un po' meno (gli Usa hanno intanto garantito a Kabul uno status di speciale privilegio economico riservato agli alleati non Nato).

Entrato ieri nel suo secondo giorno di pre conferenza, il summit di Tokyo ha visto però una novità importante e fortemente sostenuta dai giapponesi. La presenza attiva della società civile afgana e dunque un'attenzione a quella parte di società che rappresenta un po' una terza via tra una guerriglia conservatrice e tradizionalista e un governo che, nonostante l'impegno contro la corruzione (un punto fermo del vertice), resta dominato da signori della guerra, della terra e della speculazione urbana.

Dimostrando un'elevata qualità di analisi politica, i rappresentanti (più di trenta) di circa 25 reti nazionali e di oltre 4mila organizzazioni, hanno colpito nel segno: chiedono che il loro Paese sia considerato altro che una semplice retrovia da cui combattere il terrorismo internazionale e un impegno che sostenga la presenza attiva della società civile come strumento di controllo di quanto fa il governo. Chiedono un impegno perché la legge in Afghanistan diventi legge, le elezioni siano trasparenti, i bisogni primari e i diritti, donne in primis, davvero una priorità e non solo un'enunciazione di principio. Nella due giorni di pre conferenza, ospitata dal Comitato non governativo giapponese per la società civile, il dibattito è stato qualitativamente alto. Peccato che i rappresentanti del governo di Kabul, salvo rare eccezioni (come il ministro delle Finanze Zakhilwal), abbiano disertato.

La società civile è stata protagonista anche nel dibattito tra ministri: nel documento finale la parte che la riguardava era trattata in un capitolo che comprendeva anche il settore privato, come se organizzazioni non profit e imprenditori fossero la stessa cosa. L'Italia prima, poi la Svezia, infine l'Unione europea, si sono battute per dividere i due capitoli. Piccolecose, si dirà, ma indicative di sensibilità che cambiano. Gli italiani, raccogliendo un ordine del giorno del parlamento, hanno anche chiesto più precisi riferimenti alla difesa dei diritti delle donne (la famosa risoluzione 1325), per altro già presente in un documento dove la questione di genere occupa un posto rilevante. Il che si deve anche alla società civile: alle donne afgane, molto agguerrite e con le idee molto chiare.

Ancora sul fronte italiano, a Tokyo la rete “Afgana” ha rilanciato la proposta, per ora solo del Belpaese, già fatta nel dicembre scorso con Rete disarmo e Tavola della pace: destinare il 30% del risparmio originato dal ritiro del contingente militare a operazioni di cooperazione civile che vengano discusse sia con la società civile italiana, sia con quella afgana. Si vorrebbe ora che la cosiddetta “Iniziativa 30%” diventasse europea e afgana, non solo italiana. L'unica maniera perché, in qualche modo, i governi che dovrebbero applicarla tendano l'orecchio.

Ora la preoccupazione più presente tra gli attivisti afgani è il “dopo Tokyo”. «Io – ci dice una delegata – di questi diplomatici mi fido poco». L'appuntamento con la prossima “ministeriale” è tra due anni. E si vedrà se è vero quel che si dice del summit. «La chiamano – ci diceva a Kabul un funzionario Onu – l'“ultima conferenza”. Chiusi i riflettori, tutti potrebbero girare lo sguardo da un'altra parte».

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