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sabato 11 gennaio 2014

WASHINGTON-KABUL, L'INVERNO DEI VELENI


E' un tempo di veleni, incomprensioni, sgarbi reciproci e scontri quello che attraversa le gelide relazioni tra gli Stati Uniti e il governo di Hamid Karzai. Non passa giorno che non venga alla luce un motivo di frizione e la dose è rincarata da ambo le parti. Nessuno vuole cedere.






L'ultima grana in ordine di tempo riguarda 72 talebani o presunti tali deputati a varcare gli angusti confini delle proprie celle. La giustizia afgana, che da qualche mese li ha in custodia dopo che la prigione militare americana di Bagram (in alto nell'immagine aerea) è passata in mani nazionali, ha deciso che le accuse americane erano deboli. I casi esaminati sono stati quasi una novantina ma per 45 di loro la magistratura locale non ha trovato elementi certi e assai fragili per altri 27. Dunque liberi. Agli americani la cosa non è affatto piaciuta. Sulle prime, sia Washington sia Bruxelles han tenuto a freno la lingua (del resto gli afgani dovrebbero essere padroni in casa propria), poi però han cominciato a far fuoco e fiamme. Joseph Dunford, che riunisce nella stessa persona l'incarico di comandante Isaf/Nato e delle truppe americane di stanza in Afghanistan, ha detto chiaro e tondo di essere contro la decisione che per di più violerebbe il patto siglato in marzo quando le prigioni segrete di Bagram passarono in mano afgana.
Jen Psaki, portavoce del Dipartimento di Stato, ha parlato di “errore” e del fatto che, una volta liberi, i prigionieri si riveleranno una minaccia. Gli afgani però han fatto le cose per bene. Indagini di un apposito comitato e poi un vertice con gli 007 e gli uomini del presidente prima di prendere la decisione finale.



Gli americani temono che i guerriglieri a piede libero tornino a combattere. Il che molto spesso avviene (ne son già stati liberati 500). Karzai invece, ritiene la liberazione della truppa assoldata dei talebani una delle tappe necessarie al processo di pace. Il fatto è che in questo momento c'è anche altra carne al fuoco. Ed è quella a far deragliare ogni cosa su un binario morto. Dalla fine dell'anno scorso si discute del Bsa, l'accordo di partenariato strategico sulla sicurezza che Washington e Kabul han messo a punto ma che Karzai si rifiuta di firmare. Non è una semplice melina diplomatica. «Se il presidente lo firmasse» racconta un funzionario afgano «potrebbe domani esser accusato di tradimento. Di aver svenduto il Paese agli americani». Per far dunque un'uscita di scena memorabile e sgombra da qualsiasi ombra compromissoria, convinto forse che ciò possa spianargli la via a una ricandidatura alle prossime elezioni, Karzai vuole lasciare dopo il voto di aprile – dove spera di assicurare la presidenza a un suo candidato, probabilmente Zalmai Rassoul – senza aver firmato il Bsa. Il nervosismo con cui gli americani stanno reagendo rivela quanto tengano in effetti all'Afghanistan.

Ieri il Washington Post ha pubblicato un memo segreto scritto dall'ambasciatore americano a Kabul, James Cunningham (nella foto a destra), nel quale si dice apertamente che con ogni probabilità Karzai non firmerà. Gli americani (e la Nato di conserva) hanno paventato a Kabul l'opzione zero, ossia un ritiro definivo dei soldati col 31 dicembre 2014 e l'azzeramento dell'assegno promesso per pagare stipendi e acquisto di armi all'esercito nonché di quello necessario a investire in sviluppo e strutture. Ma per ora la leva di questo ricatto ha sollevato solo una gran polemica e più gli americani insistono più sembrano rivelare ciò che non vorrebbero emergesse con troppa evidenza: ossia che non hanno nessuna intenzione di andarsene e che intendono controllare, con la Nato, più di una decina di basi militari nel cuore del Paese centroasiatico, a un pugno di chilometri dall'Iran, dal Pakistan, dalla Cina e dai Paesi dell'ex Unione sovietica. E' abbastanza chiaro che Hamid Karzai, cui non manca un certo fiuto politico, ha capito benissimo che tutto ciò gli dà aggio per tirare la corda e preparare un'uscita di scena che equivale all'ideazione di un eventuale futuro rientro con l'aura intatta del nazionalista.

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