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domenica 4 giugno 2017

Dietro le bombe senza un padrino

Babur: si vuole che la sua tomba a Kabul
respingesse le pallottole durante la guerra
tra mujahedin
Sono da poco passate le tre del pomeriggio al cimitero di Khair Khana a Kabul. Un migliaio di persone sono li a rendere l’ultimo omaggio alle vittime della manifestazione antigovernativa di venerdi dove le forze di sicurezza hanno sparato sulla folla. Tra questi c’è anche il cadavere di Salem Izdyar, figlio di un senatore della Repubblica e dunque sono presenti anche le alte cariche dello Stato: c’è il primo ministro Abdullah Abdullah e il ministro degli Esteri Salahuddin Rabbani. Anche perché il padre di Salem, Mohammad Alam Izdyar, non è un senatore qualsiasi ma il rappresentante alla Meshrano Jirga della Provincia del Panjshir – a maggioranza tagica e bacino elettorale fieramente antitalebano di Abdullah. La funzione religiosa viene interrotta da tre esplosioni: un ordigno e due kamikaze che si fanno saltare in aria e gettano nello scompiglio la folla che cerca salvezza nella fuga. Il bilancio è ancora incerto: decine i feriti e, secondo alcune fonti, almeno 20 morti.
Ma cosa c’è dietro questa nuova stagione del terrore con un quadro ancor più confuso dal fatto che gli attentati non vengono rivendicati e sono stati prontamente condannati dai talebani?

La pista pachistana

I servizi segreti afgani lo hanno detto sin dalle prime ore di mercoledi quando una cisterna è esplosa nel cuore ella capitale uccidendo un centinaio di civili: dietro le stragi ci sono i servizi pachistani che si servono, come in passato, della Rete Haqqani, la fazione più stragista dei talebani. E’ un’ipotesi non nuova e con diversi precedenti anche se spesso Islamabad sembra solo il colpevole più facile da indicare: una pista che raccoglie sempre il consenso dell’uomo della strada. In passato queste stragi senza paternità erano soprattutto servite a far deragliare l’avvio degli stentati tentativi di mettere in piedi un tavolo negoziale che però – almeno per quel se ne sa – in questo momento è ben lungi dall’essere apparecchiato.


Pista talebana

Abdullah e Ghani: il primo Ceo (una specie di premier,
il secondo presudente. Due anime in guerra perenne
Gli Haqqani però, anche se dotati di larga autonomia, fanno pur sempre parte della galassia talebana. Possono dunque agire del tutto fuori linea rispetto a quanto decide mullah Akhundzada, leader della guerriglia? Se fosse così ci sarebbe un motivo che spiegherebbe bene un piccolo giallo: la presa di distanze della strage di mercoledi è infatti stata riscritta sul sito ufficiale della guerriglia (smentendo il coinvolgimento di Haqqani) e non vi appare la smentita della strage al funerale. Si potrebbe dunque anche ipotizzare una lotta intestina tra fazioni e immaginare dunque che anche l’attentato di mercoledi rientri in questa logica. Le esplosioni al funerale confermerebbero le ipotesi che vogliono gli irriducibili esasperare la tensione tra le due anime del governo: quella irriducibile rappresentata da Abdullah e dai “panjshiri” e quella di Ghani, pashtun e più possibilista anche se in realtà da tempo il presidente si è spostato su posizioni di netta chiusura al Pakistan e avrebbe appena ordinato l’esecuzione di alcuni talebani prigionieri.

Pista politica interna

Il manifesto di oggi: dopo 16 anni di guerra
il Paese è un "posto sicuro"
solo per chi ordina i rimapatrii (forzati)
Stando ai talebani, le stragi sono il frutto della tensione tra queste due anime: una tensione palpabile e
che si è manifestata nella manifestazione di venerdi che aveva però preso di mira entrambe le fazioni chiedendo le dimissioni di Ghani e Abdullah e quelle del capo della guarnigione di Kabul generale Gul Nabi Ahmadzai – che da due giorni invita i residenti a stare a casa e lontani da luoghi affollati – del capo dei servizi Massoum Stanekzai e del capo del National security council, Haneef Atmar, un uomo che è stato anche ministro di Karzai. A farsi portavoce della protesta c’è Asif Ashna, anche lui con un passato governativo: nel 2015 si è dimesso da vice portavoce di Abdullah. Accanto a lui anche Zia Massud, un altro panjshiri già nell’esecutivo di Karzai e poi in quello di Ghani finché il presidente non lo ha fatto fuori. Dunque, dietro la comprensibile rabbia dei parenti delle vittime c’è chi soffia sul fuoco ma da qui a immaginare che questi personaggi fabbrichino bombe da 1500 chili, come quella di venerdi, ce ne corre. Certo il quadro interno è confuso e il governo è barcollante, litigioso e senza consenso salvo l’appoggio della Nato e degli americani che non sembrano che aspettare il momento per poter aumentare il numero delle truppe straniere nel Paese, un piano che il Pentagono avrebbe già sottoposto a Trump e ai partner dell’Alleanza ma che è rimasto in stand-by. Quanto a Ghani ha già detto che non si dimetterà. Abdullah è della stessa opinione

Pista Stato islamico

Data per buona mercoledì solo da alcuni siti online (italiani) sembra da scartare completamente: il Califfato ha armi di propaganda ben affilate e quando prepara un attentato è già pronto anche il piano di comunicazione. Certo le truppe del califfo in Afghanistan sono in difficoltà ma, a maggior ragione, se dietro le stragi ci fossero loro, lo avremmo saputo con rapidità e certezza.

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