Fa un salto in avanti la condanna che per ora ha visto soprattutto la società civile impegnata in un’operazione di denuncia (Amnesty, Human Rights Watch, il Tribunale permanente dei popoli e diverse Ong come Msf ad esempio) con le Nazioni Unite (molte le prese di posizione e le denunce) ma, per il momento, non si sono viste forti pressioni internazionali anche se, nel suo recente viaggio in Myanmar, l’Alto commissario Federica Mogherini non è stata tenera con Aung San Suu Kyi. Nondimeno per ora, l'Unione europea si è limitata a confermare il divieto alla vendita di armi e ha riattivato il meccanismo (soppresso quando i militari hanno ceduto il potere) che vieta agli alti gradi dell’esercito birmano di venire nel Vecchio Continente. Poco o nulla ha invece fatto il Consiglio di sicurezza, come se la questione riguardasse semplicemente i rapporti tra Myanmar e Bangladesh.
La foto è tratta dal sito di Amnesty Italia |
Il rapporto di Amnesty dice chiaramente che il Myanmar ha confinato i rohingya in un’esistenza ghettizzata dove è difficilissimo avere accesso a istruzione e cure mediche in un quadro di esodo forzato dalle proprie case. Questa situazione – secondo Ai - corrisponde da ogni punto di vista alla definizione giuridica di apartheid, «un crimine contro l’umanità». «Questo sistema appare destinato a rendere la vita dei rohingya umiliante e priva di speranza – dice in una nota Anna Neistat, direttrice di Amnesty per le ricerche – e la brutale campagna di pulizia etnica portata avanti dalle forze di sicurezza del Myanmar negli ultimi tre mesi è l’ennesima, estrema dimostrazione di questo atteggiamento agghiacciante. Le cause di fondo della crisi in corso devono essere affrontate per rendere possibile il ritorno dei rohingya a una situazione in cui i loro diritti e la loro dignità siano rispettati». Difficile, anche perché, dice il rapporto, i rohingya vivono esclusi da qualsiasi contatto col mondo esterno.
Sebbene i rohingya subiscano da decenni una sistematica discriminazione promossa dal governo, la ricerca rivela come la repressione sia aumentata drammaticamente dal 2012, quando la violenza tra la comunità musulmana e quella buddista ha sconvolto lo stato di Rakhine. Queste limitazioni sono contenute in una serie di leggi nazionali, “ordinanze locali” e politiche attuate da funzionari statali che mostrano un’evidente attitudine razzista. Un regolamento in vigore nello stato di Rakhine dice chiaramente che gli “stranieri” e le “razze bengalesi” (un’espressione dispregiativa usata per indicare i rohingya) hanno bisogno di un permesso speciale per spostarsi da un luogo a un altro.
Durante la violenza del 2012, decine di migliaia di rohingya vennero espulsi dalle zone urbane dello stato di Rakhine, in particolare dalla capitale Sittwe. Attualmente 4000 di loro restano - dice ancora Ai - in città, in una sorta di ghetto isolato, circondato dal filo spinato e sorvegliato da posti di blocco, e rischiano costantemente di essere arrestati o aggrediti dalle comunità che li circondano.
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