Roberta Mazzanti* |
THE
ROOF IS GONE: esplosioni nello spazio-tempo familiare
ed evasioni
psichedeliche
in alcune narrazioni sugli anni Sessanta e Settanta del
Novecento
"Look
up!, The roof is gone / And the long hand moves / Right on by the
hour": questi versi sono parte di un testo composto e cantato da
Grace Slick – straordinaria cantautrice della scena rock a cavallo
fra anni Sessanta e Settanta, solista e vocalist in gruppi famosi
come i Jefferson Airplane – che ben rappresentava anche per gli
amanti del rock in Italia la trascinante onda musicale psichedelica
californiana. Il tetto che vola in aria per un'esplosione di
passionalità che la voce e il corpo di Grace Slick esprimono con la
massima potenza, lo spazio che si spalanca davanti a una donna in
amore, svincolata perfino dalla forza di gravità, sono una perfetta
metafora della libertà che la controcultura della West Coast di fine
anni Sessanta tentava di offrire nella sua proposta di rivoluzione
sociale, erotica e artistica.
Grace Slick |
Anche
a noi, seguaci italiani di quelle rivolte libertarie, parevano allora
antitetiche due scelte esistenziali: abitare la casa/famiglia
nucleare o abitare la strada/comunità, vivendole in forme mobili e
destrutturate, pauperistiche rispetto alla società dei consumi di
massa che andava solidificandosi e ingabbiando chi ne faceva parte. Ho
cercato di ritrovare questa antitesi in alcuni testi letterari e
musicali centrati sul tema del "viaggio" che allontana dal
nucleo originario – famiglia, luogo di nascita, cultura di
provenienza – i giovani nati negli anni Cinquanta. Viaggi reali e
mentali, esperienze psichedeliche, letture alternative a quelle
canoniche, esperienze mistiche e politiche che portano far away
from home, fatte dagli "occidentali" verso mete
esotiche, prevalentemente verso Oriente e, in parte minore, verso le
terre del Centro e Sud America.
Ho
accolto così la proposta del convegno SIL 2017: intrecciando letture
e ascolti musicali con riflessioni su personali esperienze legate al
"sentirmi a casa" o "allontanarmi da casa",
abitare in una collettività o sentirmene distante.
Evasione
da spazi di borghese confortevolezza che si rivelavano angusti,
soffocanti; sperimentazioni del corpo proiettato in luoghi metaforici
o reali dove il tempo si snodava con ritmi differenti da quelli "di
casa nostra", o addirittura sembrava essersi fermato...
Ciò
significa anche riesaminare la relazione fra individuale e
collettivo, nonché scavare nelle "contro-culture" di
quegli anni ciò che segnava allora (e tuttora?) le differenze di
genere rispetto alle possibilità e alle libertà di abitare,
viaggiare, sconfinare e tornare a casa.
La
mia lettura oscilla fra distacco e riconoscimento, fra varie
rappresentazioni di presenti e passati, con uno sguardo
critico sul passato che ho ritrovato in tre opere di scrittura ben
diverse: il reportage della scrittrice statunitense Joan Didion
"Slouching Towards Bethlehem" (pubblicato in origine nel
1967, poi tradotto da Delfina Vezzoli come Verso Betlemme e
pubblicato dal Saggiatore nel 2008), il romanzo dell'inglese Antonia
S. Byatt A Whistling Woman (pubblicato nel 2002, poi tradotto
per Einaudi nel 2005 da Fausto Galuzzi e Anna Nadotti con il titolo
Una donna che fischia), e il recente scritto autobiografico
Viaggio all'Eden di Emanuele Giordana, giornalista e inviato
speciale per il Manifesto, Internazionale, Radio3 Mondo, mio compagno
di liceo, tuttora amico in un duraturo, ampio gruppo affettivo e di
sostegno reciproco.
"Slouching
Towards Bethlehem" è lo scritto più drammatico che io abbia
letto sulla Summer of Love californiana del 1967. e sulla fuga
da casa dei tanti ragazzini americani che fioccavano a San Francisco
e sulla West Coast in cerca di pace, amore, musica e sballo. Il punto
di vista di Didion, allora trentaduenne, è al tempo stesso acuto e
sconcertato, partecipe ma carico del distacco che una colta
intellettuale formatasi negli anni Cinquanta avverte rispetto a stili
di vita che giudica disperanti, o nei casi migliori troppo
ingenuamente protestatari.
Il
titolo, letteralmente "arrancando verso Betlemme", è
ripreso dalla poesia di W.B. Yeats "Il Secondo Avvento",
dove si trovano questi versi: "Le
cose cadono a pezzi, il centro non regge più; / sul
mondo dilaga mera anarchia / l'onda
fosca di sangue dilaga e in ogni luogo / sommerge
il rito dell'innocenza; / i
migliori difettano d'ogni convinzione i peggiori / sono
colmi d'appassionata intensità" e dove ad "arranca(re)
verso Betlemme per venire alla luce" è "una rozza bestia
".1
La
scrittrice dichiarava nella prefazione che impegnarsi in un resoconto
della primavera-estate 1967 trascorsa nel quartiere di Haight-Ashbury
a San Francisco le era sembrato "imperativo" ma l'aveva in
seguito demoralizzata la consapevolezza che "le cose cadono a
pezzi": si era convinta che se avesse voluto continuare a
scrivere, avrebbe dovuto venire a patti con "il disordine".2
Una
dieta non proprio salutare a base di gin e Dexedrina l'aveva
sostenuta nel drammatico processo di scrittura del reportage, la cui
prima riga riprende quasi letteralmente uno dei versi di Yeats: "Il
centro non reggeva più": nell'American Dream si manifestavano
crepe via via più vistose – sotto i colpi della contestazione
alla guerra in Vietnam, dei conflitti razziali e delle rivolte non
più pacifiche dei movimenti neri, delle rivolte studentesche, delle
teorizzazioni politiche e azioni di massa stimolate dalla New Left e
dal Women's Liberation Movement –, mentre sciamavano a San
Francisco migliaia di giovanissimi: "Gli adolescenti vagavano da
una città straziata all'altra, liberandosi di passato e futuro come
i serpenti si disfano della pelle, ragazzi cui non erano mai stati
insegnati, e ormai non avrebbero mai imparato, i giochi che avevano
tenuto insieme la società".3
Dal
suo punto di vista, San Francisco non è il luogo già mitico
dell'utopia di Pace, Amore e Musica, ma piuttosto quello "dove
l'emorragia sociale si stava spandendo a macchia d'olio". Il
sentimento dell'autrice di fronte al perenne stato di alterazione da
droghe – LSD, hashish e marijuana, anfetamine, mescalina – dei
suoi interlocutori oscilla fra curiosità, sconcerto e distacco, un
distacco perso in poche, significative occasioni: quando incontra
bambini semi-abbandonati o addirittura coinvolti dagli adulti in
sballi psichedelici; quando ascolta le giovani hippie parlare del
"trip femminile" in cui la felicità può trovarsi nel fare
"cose da donna" che dimostrino amore, e lei pensa alla
contestazione della Mistica della Femminilità (il famoso saggio di
Betty Friedan era uscito nel 19634);
quando assiste a manifestazioni di attivisti "il cui approccio
alla rivoluzione era fantasiosamente anarchico" e tuttavia le
pare di assistere "al disperato tentativo di un manipolo di
ragazzi pateticamente impreparati di creare una comunità in un vuoto
sociale", che ricorrono a un vocabolario di frasi fatte: "un
esercito di bambini che aspetta di ricevere le parole".5
E negli spazi "alternativi" di Haight-Ashbury descritti
dall'autrice, il tempo sembra non scorrere, bloccato in un permanente
stupore.
All'estremo
opposto, Emanuele Giordana prova a raccontare i "trip"
della cultura alternativa dalla prospettiva di chi quei viaggi
psichedelici e reali sulle rotte d'Oriente li faceva da protagonista,
non da osservatore.
Da
Milano a Kathmandu, come recita il sottotitolo del suo Viaggio
all'Eden, racconta di un itinerario collettivo creato da gruppi
di ragazzi milanesi che nelle estati degli anni Settanta percorrevano
a tappe un lungo viaggio di formazione autogestito: Creta, Istanbul,
Iran, Kabul con la sua Chicken Street colonizzata dai freak, Pakistan
e infine India e Nepal, ultima tappa Kathmandu capitale "di un
paese tanto bello quanto povero, misero e ignorante"6
dove il mitico viaggio all'Eden prendeva la direzione del ritorno a
casa.
Già
svezzati da esperienze politiche nei primi anni della contestazione,
i figli della borghesia ma anche i proletari che per primi in
famiglia approdavano a studi superiori, sperimentatori di droghe e
lettori suggestionati dai "sacri testi" della controcultura
internazionale, erano spinti dalla voglia di evadere dalle coordinate
famiglia-scuola-caserma: "La voglia del viaggio, nella seconda
metà degli anni Settanta, era diventata un contagio febbrile,
irrefrenabile e trasversale".7
E
mossi dal desiderio di azzerare, o quantomeno di sospendere il futuro
ingresso nel mondo adulto tradizionale e occidentale: abitare un
altro tempo, era questa la molla che spingeva al tempo stesso verso
le sperimentazioni allucinogene e verso civiltà che parevano vivere
secondo altri criteri temporali.
Grazie
a Viaggio all'Eden, ho ripensato ai nostri tentativi di
abitare il mondo diversamente da quello che nascita, classe e cultura
prevedevano, agli strappi e ai nuovi radicamenti, più o meno falliti
o riusciti in varie forme erotiche, politiche, psichedeliche,
culturali. Alla scelta che tant* hanno fatto di ripercorrerle in
forme narrative, autobiografiche e romanzesche, ri-abitandole nella
scrittura e guadagnandole a nuove dimensioni temporali.
La
chiave interessante del libro di Giordana sta infatti nel suo duplice
percorso temporale ed esistenziale verso Oriente: il primo negli anni
Settanta, il secondo quando ne ha ripercorso i tracciati come
inviato, giornalista e attivista in zone di conflitto, in particolare
in Afghanistan; gli anni in cui ha rivisitato la "favola
perfetta" raccontando sulla stampa e alla radio un Paese
dilaniato dalle guerre che gli appare come "il manifesto di un
fallimento" e gli lascia l'amara sensazione "di non aver
gridato abbastanza" contro "la sporca guerra".8
Nonostante
l'amara consapevolezza, Giordana considera le peregrinazioni
giovanili come patrimonio "di quella frangia più anarchica e
libertaria" dell'avanguardia che sconvolse il mondo fra anni
Sessanta e Settanta, giovani "curiosi, e in parte anche
consapevoli. Facemmo quel viaggio (...) con rispetto", e ne
rimase un percorso di sprovincializzazione e di apertura ad altre
culture, prezioso per ridimensionare ignoranza e arroganza.9
Se
Didion tentava un'immersione quasi antropologica nella controcultura
durante il suo coagularsi e smagliarsi in una breve stagione
californiana, e Giordana ricorre oggi al fertile espediente di un
doppio registro soggettivo – ricostruire il farsi di un
viaggio passato (e mai dimenticato) a partire da un semplice taccuino
di viaggio integrato da ricordi e fotografie, e molti anni dopo farne
scaturire altri riverberi grazie a una lente più critica, più
pensosa –, Byatt dal canto suo si impegna in un grandioso sforzo di
narrare un'epoca attraverso frammenti complessi, dove la filatura di
vari tracciati individuali crea la tessitura di una rete collettiva,
immersa nel lungo flusso di una tetralogia romanzesca in cui Una
donna che fischia è l'ultimo volume delle avventure di Frederica
Potter.10
Al
centro, le peripezie culturali, sentimentali e professionali della
protagonista insieme a un poliedrico gruppo, vero co-protagonista.
Controcultura pop e psichedelia, anti-psichiatria, contestazione
universitaria e sconcerto della cultura liberal inglese, esperimenti
di vita comunitaria, scoperte scientifiche e anti-scientismo,
maternità e promiscuità sessuali, nulla manca in questo magma
profusamente tenuto insieme e articolato in episodi vivissimi dalla
maestria della scrittrice.
Frederica,
insegnante di Lettere, è già madre single di Leo, vive con un'amica
che ha fatto la stessa scelta, coltiva relazioni eterosessuali
appassionate ma non esclusive. La sua instabile identità muta
improvvisamente quando nel 1968 si trova a condurre una brillante
trasmissione televisiva di interviste culturali, intitolata
Attraverso lo specchio. Non per caso la donna, che si immagina
nei panni di "un'Alice consapevole, astuta e molto adulta"
vive lo schermo televisivo come uno specchio dove ricomporre
"l'invincibile energia dell'infanzia" con la sua
inesauribile curiosità e voracità per la vita: "Oh no, pensò
Frederica che stava per essere rifratta nell'intera nazione in
migliaia di Frederiche frammentate e scintillanti, non voglio
recitare. Voglio pensare. Chiarezza. Curiosità. Curiosare.
Curiosare".11
Il
tema della messa in scena di sé innerva tutto il romanzo e trascina
i personaggi in una gigantesca recita di nuovi ruoli e tentativi di
trasformazione individuale e collettiva, esaltanti ma anche
costellati di lutti e disastri. Scelgo qui un solo esempio: in una
puntata di Attraverso lo specchio dedicata al tema "Donne
libere", la conduttrice e le sue ospiti alternano serie
riflessioni e provocazioni, domande su ciò che vogliono le donne e
citazioni dal passato; Byatt le descrive in dettaglio anche
nell'abbigliamento, e poi sintetizza, lapidaria: "Un'equilibrata
mistura di travestimento, maschera e parodia – ma di cosa?".12
Uno
degli allusivi travestimenti che Frederica adotta in televisione
torna nella scena finale, in cui la donna accetta l'inaspettata
maternità e la rivela al suo compagno e al figlio Leo. Con il vento
del mare ad arruffarle i capelli e l'abito di Laura Ashley teso sul
ventre, Frederica ha "un assurdo aspetto da pastora" ma sta
vivendo un attimo di perfetta intesa, un momento essenziale:
"Frederica disse a Leo: – Non abbiamo la più pallida idea di
quello che faremo –. Scoppiarono a ridere. Il mondo era tutto
davanti a loro, o così sembrava. Potevano andare dovunque".13
Un'immagine
non convenzionale di famiglia, sia per l'ambientazione selvaggia
nella brughiera, sia per i legami tra i protagonisti, sia per
l'incertezza assoluta sul futuro, un futuro che nello spirito dei
tempi era tutto da inventare.
Così,
su una strada aperta, si conclude il romanzo. Ma nella parte
iniziale, descrivendo la Frederica che molti anni dopo si sarebbe
confrontata con il riaffiorare dei ricordi di quella fase dirompente,
traboccante di energia, Byatt scriveva:
Più tardi, molto più tardi, Frederica – che si era sentita
vecchia a trent'anni e si sorprendeva di non sentirsi tale a sessanta
– ripensò a quel periodo di tumulto giovanile, di rivolta e
rifiuto, come qualcosa di molto lontano e concluso, mentre i dolci,
incerti, timidamente ottimisti anni Cinquanta non lo erano. Innanzi
tutto, storicamente, ci vuole qualche decennio perché i "giovani"
si rendano conto che altre generazioni più giovani spuntano come
funghi, e che i giovani degli anni Sessanta, i quali non potevano
ricordare la Guerra, erano stati rapidamente sostituiti da
generazioni che non potevano ricordare il Vietnam, a loro volta
seguite da generazioni che non potevano ricordare la Falkland. I visi
dipinti, i capelli, le bandane, i campanelli alle caviglie e ai polsi
finirono per essere nello stesso tempo tribali e vieux jeu,
benché la generazione di Leo conservasse una certa nostalgia per una
"libertà" così spesso proclamata e cantata che doveva
essere esistita, in illo tempore, in qualche altro luogo. O
forse, pensò Frederica riflettendo sull'indeterminatezza dei propri
ricordi di quel periodo, era la sorte comune a tutti i ricordi vecchi
di trent'anni (...). Gli anni Sessanta [invece] erano come una rete
da pesca dalle maglie spaventosamente larghe e lasche, con qualche
raro oggetto di plastica sgargiante impigliato qua e là, mentre
tutto il resto era rifluito nell'oceano indistinto. 14
Testi
citati:
A.
S. Byatt, A Whistling Woman (2002); Una donna che
fischia, trad. di Fausto Galuzzi e Anna Nadotti, Einaudi, Torino
2005-2006.
Joan
Didion, "Slouching Towards Bethlehem. Life Styles in the Golden
Land", in Slouching Towards Bethlehem, 1968, pp. 94-132;
Verso Betlemme, trad. Delfina Vezzoli, Il Saggiatore, Milano
2008.
Betty Friedan, The
Feminine Mystique (1963), La
mistica della femminilità,
trad. it. L. Valtz Mannucci, Edizioni di Comunità, Milano 1964.
Emanuele
Giordana, Viaggio all'Eden, Laterza, Roma-Bari 2017.
W.B.Yeats, "Il
Secondo Avvento", in L'opera poetica, trad. it. A.
Mariani, Mondadori, Milano 2005.
Brani
musicali sul viaggio, sulla vita on the road:
- Me
and Bobbie McGee di Kris Kristofferson, cantata da Janis Joplin
(1971)
-
Like a Rolling Stone, parole, musica e canto di Bob Dylan (1965)
-
The
Roof is Gone
parole, musica e canto di Grace Slick, dall'album Manhole
(1974)
1
W.B.Yeats, "Il Secondo Avvento", in L'opera poetica,
trad. it. A. Mariani, Mondadori, Milano 2005.
2
Joan Didion, "Slouching Towards Bethlehem. Life Styles in the
Golden Land", in Slouching Towards Bethlehem, 1968:
11-12; Verso Betlemme, trad. it. Delfina Vezzoli, Il
Saggiatore, Milano 2008. Le citazioni qui sono prese dal testo
italiano ma non rintracciabili in pagina perché ricavate dalla
versione digitale; mi riferisco perciò alle pagine del testo
originale.
3
Ivi: 94.
4
Betty Friedan, The Feminine Mystique (1963), La
mistica della femminilità,
trad. it. L. Valtz Mannucci, Edizioni di Comunità, Milano 1964.
5
Joan Didion, op. cit.: 95, 118-19, 127.
7
Ivi: 7-8.
8
Ivi: 29, 44-45.
9
Ivi:112.
10
I romanzi precedenti sono La vergine nel giardino (1978,
ediz. it. 2002), Natura morta (1985, ediz. it. 2003), La
torre di Babele (1996, ediz. it. 1997), tutti tradotti da Fausto
Galuzzi e Anna Nadotti per Einaudi.
11
A. S. Byatt, Una donna che fischia, trad. di Fausto Galuzzi e
Anna Nadotti, Einaudi, Torino 2005-2006: 132-36, passim.
12
Ivi: 145.
13
Ivi: 403.
14
Ivi: 53-54.
*Roberta Mazzanti si è occupata di letteratura e storia delle donne e di storia del movimento operaio americano. Dal 1985 al 2009 ha lavorato per l’editore Giunti, creando la collana Astrea dedicata alla narrativa delle donne di varie epoche e paesi. Fra le sue pubblicazioni, “La gente sottile”, in AAVV, Baby Boomers: vite parallele dagli Anni Cinquanta ai cinquant’anni (Giunti 2003); “Sad new powers: parole d’esilio e d’amore nel romanzo In fuga di Anne Michaels”, in AAVV, Le eccentriche. Scrittrici del Novecento, Tre Lune Edizioni, 2003. Ha fatto parte della redazione di “Linea d’Ombra” e nel 2015 ha pubblicato "Sotto la pelle dell’orsa" (Iacobelli)
Nessun commento:
Posta un commento