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sabato 23 dicembre 2017

Viaggio all'Eden a Roma nella tana di ESC



A Livre Esc Atelier

Via dei Volsci 159

Roma

alle 18.30

Presentazione di Viaggio all'Eden. Il mitico percorso dall'Europa a Kathmandu negli anni Settanta e quarant'anni dopo



Ne discute con l'autore Giuliano Battiston




Di seguito la sua recensione per il manifesto


Affascinanti utopie e scenari non allineati


SCAFFALE.
 «Il viaggio all'Eden», di Emanuele Giordana per Laterza, che verrà presentato sabato a
 Roma all'Esc, nell'ambito di Livre Festival


il manifesto 21.12.2017





«In origine fu Luca detto ’Paglia’. Prima con una Volkswagen Maggiolino, poi con mezzi di fortuna, aveva raggiunto Kabul via terra facendo all’inverso la stessa strada che gli australiani battevano da anni» attraversando l’Asia «verso le radici delle famiglie d’origine» in Europa. «Negli anni Settanta, invece, quel percorso à rebours iniziarono a farlo gli inglesi, i francesi, gli italiani».

Tra loro c’è Emanuele Giordana, ventenne «ancora imbesuito dalle tradizioni della borghesia illuminata lombarda» ma già roso dal tarlo della strada, bruciato «dalla passione per quel treno che partiva dalla Stazione Centrale e proveniva da Parigi diretto a Istanbul». Da lì la strada puntava verso l’Iran, l’Afghanistan, il Pakistan, l’India e il Nepal.

A KATHMANDU FINIVA la grande epopea che attraeva «viaggiatori scandinavi dalle gote rosse e i capelli d’un biondo quasi bianco, junkie francesi che imitavano Duchaussois», l’autore di Flash. Kathmandu il grande viaggio, «sfilacciati britannici dall’aria spiritata, spacciatori napoletani col passaporto contraffatto, signorini milanesi con kurta e pijama su cui esibivano maglioncini di cachemire».

TUTTI AFFETTI da «un contagio febbrile, irrefrenabile e trasversale», sintomo di una malattia che attraversava l’Europa: l’insofferenza per famiglia, matrimonio, fabbrica, sagrestia. Il desiderio di «liberare il mondo non solo dalle catene della fabbrica, ma da quelle che ci imprigionano nella vita quotidiana». L’ambizione di potersi liberare del proprio ego, attraverso la scoperta dell’’altro’ e delle droghe. L’utopia di un mondo diverso, non alienato, di una società ’organica’, non compromessa dall’individualismo e dal capitalismo. Da raggiungere in un altrove tanto immaginario quanto concreto e reale. Quell’Oriente riportato a Milano dal ’Paglia’ sotto forma di magliette ricamate, pipette, scatoline argentate acquistate a Kabul e rivendute davanti al liceo Carducci; raccontato nelle prime guide turistico-psicotrope che passavano di mano in mano nel bar Erika di via Montepulciano, evocato nel Siddartha di Hermann Hesse, nell’Autobiografia di uno yogi di Paramhansa Yogananda o nel film Cavalieri selvaggi di John Frankenheimer, girato nel 1972 in Afghanistan.

UNA DELLE METE PRINCIPALI de Il viaggio all’Eden, come recita il titolo dell’ultimo libro di Emanuele Giordana (Laterza, pp. 114, euro 16), che a quarant’anni di distanza è tornato su alcune di quelle strade polverose, e grazie a un meticoloso libretto di viaggio – «resuscitato un giorno per magia da un vecchio baule» –, agli appunti della memoria e al mestiere di narratore ha compiuto un esemplare «viaggio a ritroso, sospeso tra consapevolezza e incoscienza, stupore e soprattutto curiosità».

È un viaggio in cui la distanza da deficit diventa forza, scelta stilistica. La distanza tra il passato e il presente, tra la fascinazione orientalistica un po’ ingenua degli anni Settanta e la matura consapevolezza di oggi diventa infatti tensione tra due vettori narrativi, opposti ma complementari. Il viaggio di allora è un continuo guardare avanti, mosso dall’immaginazione, dai racconti altrui e dai propri sogni e aspirazioni. La scrittura di oggi è un guardare all’indietro, dando forma retrospettivamente ad appunti sparsi, fotografie ingiallite, resoconti, racconti deformati dal passaparola, più vicini al vero perché passati al setaccio di una narrazione plurale, polifonica, discordante. «C’era chi era salito sul Direct Orient cercando sé stesso e chi un amico partito prima di lui; chi inseguiva un altro dio o una nuova dimensione spirituale; chi restava ’comunque un compagno, cazzo’, e chi invece si abbandonava ai sentieri dell’io, che il suo personale non era già più politico».

C’ERA CHI ERA PARTITO perché aveva sentito delle ’peshawar’, le pillole di morfina della Merck vendute nella città pachistana a prezzo irrisorio, anticamera di una vita da junkie con la «scimmia sulla schiena»; chi invece inseguiva i kafir, la popolazione dalle origini misteriose che Bruce Chatwin aveva cercato in Afghanistan a 22 anni, nel 1962 – «sei anni prima che gli hippies lo rovinassero», scrive l’autore di Che ci faccio qui?; «c’erano musicisti, ingegneri, monaci, sballati, operai, bravi compagni e compagni che sbagliano, femministe e gay, tossici e puritani, schizzinosi e pidocchiosi, perfino nazi-maoisti o anarco-sioux». E poi c’era l’autore. Uguale agli altri, ma diverso. Il lettore se ne accorge. E lo vorrebbe come compagno di viaggio.

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