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giovedì 5 settembre 2019

Kabul alza la testa (e Bruxelles e Roma la chinano)

Marginalizzato e politicamente indebolito dai negoziati solo bilaterali tra Talebani e Americani, il
governo di Kabul prova a fare la voce grossa. Ieri Seddiq Sediqui, il portavoce del presidente Ashraf Ghani, ha reso noto che il governo “è preoccupato e per questo chiede ulteriori chiarimenti per esaminare accuratamente rischi potenziali e conseguenze negative” dell’accordo di Doha tra i Talebani e l’inviato di Trump, Zalmay Khalilzad. Che lunedì ha portato il testo a Ghani e ne ha anticipato alcuni contenuti in un’intervista alla tv ToloNews: ritiro entro 135 giorni dalla firma di 5.400 dei circa 14.000 soldati Usa. Il resto del testo non è pubblico, ma è chiaro il nodo politico. Gli afghani, spalle al muro, si sentono in parte traditi da Khalilzad, che ha derubricato come secondario ciò che fino a pochi mesi fa riteneva prioritario: che alla “pace” tra Americani e Talebani corrisponda quella tra il governo di Kabul e la guerriglia.

La preoccupazione non è solo sua. Dagli Stati Uniti – dove Ghani ha vissuto a lungo – arriva una dichiarazione congiunta di 9 tra ex ambasciatori e inviati speciali Usa in Afghanistan. Sostengono con forza la soluzione negoziata al conflitto, ma chiedono “che il ritiro completo delle truppe avvenga solo dopo una vera pace”, non prima, e che il governo afghano venga sostenuto, non tagliato fuori dai negoziati, come fin qui avvenuto. Rigettano inoltre una delle ipotesi ventilate nelle scorse settimane – un esecutivo a interim dopo la firma dell’accordo – e si dicono a favore dello svolgimento delle presidenziali del 28 settembre. Nessuno sa se si terranno o meno.

Ghani, in cerca del secondo mandato, assicura che le elezioni sono indispensabili per la legittimità del sistema ma alcuni candidati poco convinti si sono già ritirati mentre uno dei favoriti, l'ex consigliere per la sicurezza nazionale Hanif Atmar, ha sospeso la campagna e il premier Abdullah è disposto a rinunciarvi "per favorire la pace". Sul voto un funzionario internazionale da anni a Kabul e che preferisce restare anonimo è sconsolato: “Continua a stupirmi la mancanza di conoscenza diretta della realtà dell'Afghanistan quotidiano di vari analisti che pontificano sul futuro... se solo chiedessero in strada e nelle campagne alla gente cosa pensa delle elezioni che, secondo la consumata narrativa americana, ogni non talebano vorrebbe disperatamente…”. Sfiducia sul voto dunque ma anche rabbia e rumor di ogni tipo tra cui quello, riferisce una fonte, secondo cui gli americani sparerebbero addirittura sui soldati afgani. Clima teso e preoccupato. Anche tra gli umanitari che lavorano nel Paese. Luca Lo Presti di “Pangea” se ne fa tramite: “Al tavolo negoziale sono assenti i temi legati alla popolazione: i diritti delle donne o quello all’istruzione. Solo controllo e spartizione del potere. Che trattativa è”?

Non la spiega nemmeno il segretario generale della Nato Stoltenberg che, incontrando Mike Pompeo, si limita a ribadire “sostegno pieno agli Usa”. Si, ma i suoi 16mila soldati che faranno? In Italia la cosa è nelle mani di due neoministri: Di Maio e Lorenzo Guerini, che dal Comitato parlamentare per la sicurezza (Copasir, controllo parlamentare sui servizi segreti) è stato mandato alla Difesa a sostituire la ministra pentastellata Trenta che si è distinta per le sue visite in mimetica (uno stile ereditato da La Russa) al contingente italiano in Afghanistan (800 uomini) che il governo gialloverde, nonostante le posizioni “ritiriste” in campagna elettorale, ha ridotto solo di un centinaio di unità. Lodigiano e già vicesegretario del Pd si spera che almeno smetta l’uso della mimetica. Ma soprattutto il nuovo capo della Farnesina potrebbe prendere una posizione visto che erediterà dal silenziosissimo Moavero Milanesi il dossier afgano che il suo predecessore aveva avocato a sé sottraendolo al sottosegretario per l’Asia Manlio Di Stefano. Per tenerlo nel cassetto.

A quattro mani con Giuliano Battiston


domenica 17 giugno 2018

Sconfinate a Bologna il 19 giugno

Atlas of Transitions Biennale prende il via a Bologna con le dieci giornate di Right to the City | Diritto alla Città dal 15 al 24 giugno
Esperienze comuni tra residenti italiani e stranieri, migranti, richiedenti asilo, rifugiati politici 
Tra gli eventi la presentazione di
Sconfinate. Terre di confine e storie di frontiera

Arena del Sole – Chiostro
Martedi 19 giugno // ore 19 // Chiostro Arena del Sole
ingresso gratuito

Cosa sono oggi e cosa sono stati i confini? Cosa rappresentano e come sono nati? Chi se ne sente protetto e chi invece li vive come una privazione identitaria?
Nella raccolta Sconfinate (Rosemberg & Sellier 2018), a cura di Emanuele Giordana, dieci autori provano a disegnare una nuova mappa geografica che tenga conto del “confine che non c’è” del Somaliland, della frontiera liquida del Mediterraneo, dei confini di sabbia dei deserti africani, dei lasciti coloniali della linea Durand tra Afghanistan e Pakistan, del muro di Trump tra Usa e Messico.



Il curatore del volume Emanuele Giordana, direttore di atlanteguerre.it ne  discute con gli autori Giuliano Battiston e  Pierluigi Musarò



Giuliano Battiston
Giornalista e ricercatore freelance, socio dell’associazione indipendente di giornalisti Lettera22.
Giuliano Battiston scrive per quotidiani e periodici, tra cui L’Espresso, il Manifesto, Pagina99, Ispi. Si occupa di islamismo armato, politica internazionale, globalizzazione, cultura. Per le Edizioni dell’Asino ha pubblicato Arcipelago jihad, Lo Stato islamico e il ritorno di al-Qaeda. Per la stessa casa editrice è autore dei libri intervista Zygmunt Bauman. Modernità e globalizzazione (2009) e Per un’altra globalizzazione (2010). Dal 2010 cura il programma del Salone dell’editoria sociale. Dal 2007 si occupa di Afghanistan, con viaggi, inchieste, reportage e ricerche accademiche.


Pierluigi Musarò
professore associato presso l’Università di Bologna e research fellow presso IPK, New York University e London School of Economics and Political Science. Presidente dell’Associazione YODA (gruppoyoda.org) e Direttore di IT.A.CÀ_migranti e viaggiatori: Festival del Turismo Responsabile (festivalitaca.net).
Autore di molte pubblicazioni nel campo dei media e delle migrazioni, del turismo e dello sviluppo sostenibile, dell’innovazione e della comunicazione sociale.

sabato 23 dicembre 2017

Viaggio all'Eden a Roma nella tana di ESC



A Livre Esc Atelier

Via dei Volsci 159

Roma

alle 18.30

Presentazione di Viaggio all'Eden. Il mitico percorso dall'Europa a Kathmandu negli anni Settanta e quarant'anni dopo



Ne discute con l'autore Giuliano Battiston




Di seguito la sua recensione per il manifesto


Affascinanti utopie e scenari non allineati


SCAFFALE.
 «Il viaggio all'Eden», di Emanuele Giordana per Laterza, che verrà presentato sabato a
 Roma all'Esc, nell'ambito di Livre Festival


il manifesto 21.12.2017





«In origine fu Luca detto ’Paglia’. Prima con una Volkswagen Maggiolino, poi con mezzi di fortuna, aveva raggiunto Kabul via terra facendo all’inverso la stessa strada che gli australiani battevano da anni» attraversando l’Asia «verso le radici delle famiglie d’origine» in Europa. «Negli anni Settanta, invece, quel percorso à rebours iniziarono a farlo gli inglesi, i francesi, gli italiani».

Tra loro c’è Emanuele Giordana, ventenne «ancora imbesuito dalle tradizioni della borghesia illuminata lombarda» ma già roso dal tarlo della strada, bruciato «dalla passione per quel treno che partiva dalla Stazione Centrale e proveniva da Parigi diretto a Istanbul». Da lì la strada puntava verso l’Iran, l’Afghanistan, il Pakistan, l’India e il Nepal.

A KATHMANDU FINIVA la grande epopea che attraeva «viaggiatori scandinavi dalle gote rosse e i capelli d’un biondo quasi bianco, junkie francesi che imitavano Duchaussois», l’autore di Flash. Kathmandu il grande viaggio, «sfilacciati britannici dall’aria spiritata, spacciatori napoletani col passaporto contraffatto, signorini milanesi con kurta e pijama su cui esibivano maglioncini di cachemire».

TUTTI AFFETTI da «un contagio febbrile, irrefrenabile e trasversale», sintomo di una malattia che attraversava l’Europa: l’insofferenza per famiglia, matrimonio, fabbrica, sagrestia. Il desiderio di «liberare il mondo non solo dalle catene della fabbrica, ma da quelle che ci imprigionano nella vita quotidiana». L’ambizione di potersi liberare del proprio ego, attraverso la scoperta dell’’altro’ e delle droghe. L’utopia di un mondo diverso, non alienato, di una società ’organica’, non compromessa dall’individualismo e dal capitalismo. Da raggiungere in un altrove tanto immaginario quanto concreto e reale. Quell’Oriente riportato a Milano dal ’Paglia’ sotto forma di magliette ricamate, pipette, scatoline argentate acquistate a Kabul e rivendute davanti al liceo Carducci; raccontato nelle prime guide turistico-psicotrope che passavano di mano in mano nel bar Erika di via Montepulciano, evocato nel Siddartha di Hermann Hesse, nell’Autobiografia di uno yogi di Paramhansa Yogananda o nel film Cavalieri selvaggi di John Frankenheimer, girato nel 1972 in Afghanistan.

UNA DELLE METE PRINCIPALI de Il viaggio all’Eden, come recita il titolo dell’ultimo libro di Emanuele Giordana (Laterza, pp. 114, euro 16), che a quarant’anni di distanza è tornato su alcune di quelle strade polverose, e grazie a un meticoloso libretto di viaggio – «resuscitato un giorno per magia da un vecchio baule» –, agli appunti della memoria e al mestiere di narratore ha compiuto un esemplare «viaggio a ritroso, sospeso tra consapevolezza e incoscienza, stupore e soprattutto curiosità».

È un viaggio in cui la distanza da deficit diventa forza, scelta stilistica. La distanza tra il passato e il presente, tra la fascinazione orientalistica un po’ ingenua degli anni Settanta e la matura consapevolezza di oggi diventa infatti tensione tra due vettori narrativi, opposti ma complementari. Il viaggio di allora è un continuo guardare avanti, mosso dall’immaginazione, dai racconti altrui e dai propri sogni e aspirazioni. La scrittura di oggi è un guardare all’indietro, dando forma retrospettivamente ad appunti sparsi, fotografie ingiallite, resoconti, racconti deformati dal passaparola, più vicini al vero perché passati al setaccio di una narrazione plurale, polifonica, discordante. «C’era chi era salito sul Direct Orient cercando sé stesso e chi un amico partito prima di lui; chi inseguiva un altro dio o una nuova dimensione spirituale; chi restava ’comunque un compagno, cazzo’, e chi invece si abbandonava ai sentieri dell’io, che il suo personale non era già più politico».

C’ERA CHI ERA PARTITO perché aveva sentito delle ’peshawar’, le pillole di morfina della Merck vendute nella città pachistana a prezzo irrisorio, anticamera di una vita da junkie con la «scimmia sulla schiena»; chi invece inseguiva i kafir, la popolazione dalle origini misteriose che Bruce Chatwin aveva cercato in Afghanistan a 22 anni, nel 1962 – «sei anni prima che gli hippies lo rovinassero», scrive l’autore di Che ci faccio qui?; «c’erano musicisti, ingegneri, monaci, sballati, operai, bravi compagni e compagni che sbagliano, femministe e gay, tossici e puritani, schizzinosi e pidocchiosi, perfino nazi-maoisti o anarco-sioux». E poi c’era l’autore. Uguale agli altri, ma diverso. Il lettore se ne accorge. E lo vorrebbe come compagno di viaggio.

martedì 28 febbraio 2017

Appuntamenti jihadisti il 1 marzo (a Milano)


--------------- Milano ore 18 ------


Arcipelago jihad. Lo Stato islamico e il ritorno di al-Qaeda
domani a 1 marzo, 2017@18:00–19:30
un libro di i Giuliano Battiston
Quartiere Isola, in via Carmagnola 4 angolo via Pepe. 

con Andrea Carati, Università degli Studi di Milano
Giuliano Battiston, giornalista e ricercatore freelance
Emanuele Giordana, giornalista e saggista
ed Elisa Giunchi, Università degli Studi di Milano

Giuliano Battiston, giornalista e ricercatore freelance, scrive per quotidiani e periodici tra cui “l’Espresso”, “il manifesto”, “pagina99” e “Lo straniero”. Esperto di Afghanistan, si occupa di islamismo armato, politica internazionale e globalizzazione. Per le edizioni dell'Asino ha pubblicato i libri-intervista Zygmunt Bauman. Modernità e globalizzazione (2009) e Per un’altra globalizzazione (2010).



 -----------------     ...più tardi a Seregno -------------

Incontro “Dentro il Jihadistan”
Perchè l’islam, non è il nemico
1 marzo 2017
Sala Minoretti
Circolo Culturale San Giuseppe
Via Cavour 25, Seregno

L’incontro verrà introdotto da Alberto Rossi (Pres. Il Caffè Geopolitico), e moderato in maniera
attiva da Lorenzo Nannetti (Resp. Scientifico Il Caffè Geopolitico).
Relatori: Emanuele Giordana (Giornalista e scrittore) e Arturo Varvelli (Analista, ISPI)
Gli orari verranno gestiti in maniera flessibile dai relatori e dal moderatore
21.00 – 21.15 Presentazioni e introduzione ospiti (A. Rossi)
21.15 – 22.15 interventi (circa 25 minuti totali per relatore)

Moderatore della serata sarà Alberto Rossi
La sala dove si svolge l’incontro è all’interno di una zona chiusa al traffico, è possibile parcheggiare
comunque nei pressi di via Cavour, nei pressi dell’incrocio con Corso Matteotti.

venerdì 13 gennaio 2017

Grande Gioco: un week end di Passioni


“Passioni – Sulle orme del Grande Gioco”, in onda  il 14-15 gennaio 2017 alle ore 14.30 sulle frequenze di Radio3 (terza e quarta puntata)

Ideato e condotto da Emanuele Giordana  con la regia di Giulia Nucci

A cura di Cettina Flaccavento

Podcast



Sulle orme del Grande Gioco - Passioni del 14 gennaio 2017

Il Grande Gioco, the Great Game per gli inglesi e Turniry Teney o Torneo delle ombre per i russi, fu una specie di grande guerra fredda del 19mo secolo. Una guerra mai dichiarata che opponeva Londra a San Pietroburgo, passando per Calcutta, la sede della Compagnia delle Indie – la East India Company – che doveva governare de facto l’India e tutti i possedimenti di oltremare sino al 1860 per essere infine sciolta nel 1874. Il nostro viaggio sulle tracce del Grande Gioco ci porta allora per forza a San Pietroburgo, fondata dallo zar Pietro il Grande sul delta della Neva, dove il fiume sfocia nella baia omonima nel golfo di Finlandia E’ stata a lungo la capitale dell'Impero russo e la sede della corte degli zar. Ci faremo aiutare da Lucia Sgueglia, giornalista che vive a Mosca da molti anni e che ha girato in lungo e in largo l’Asia centrale ex sovietica. Ma anche da letture di storici dell’epoca o di scrittori eccezionali come Dostoevskij che diede alle stampe il suo famoso Le notti bianche nel 1848. In pieno Grande gioco

Sulle orme del Grande Gioco - Passioni del 15 gennaio 2017

E siamo arrivati alla nostra ultima tappa nel viaggio che ci ha fatto ripercorrere le tappe del Great Game, del Grande Gioco, di quella guerra combattuta non solo con le armi ma con le spie, gli informatori, i diplomatici, gli avventurieri, i mercanti. Torniamo a Kabul, alla Kabul di allora e alla Kabul di oggi. Sentiremo, grazie agli storici dell’epoca, riesumati dai saggi di Peter Hopkirk e William Dalrymple, com’era la Kabul ottocentesca e poi ce la racconterà, com’è oggi, Giuliano Battiston, giornalista e ricercatore che ha appena pubblicato per Gli Asini Arcipelago Jihad. Lo Stato islamico e il ritorno di al-Qaeda, una ricerca su due dei principali attori sulla scena di un Nuovo Grande Gioco che, dal Medio oriente, è arrivato fino all’Afghanistan.

sabato 9 aprile 2016

Libri consigliati: Battiston su Daesh


Venerdì 1 aprile è uscito per l'Espresso un ebook di Giuliano Battiston: "Stato islamico. La vera storia". 

La genesi, i protagonisti, l'ideologia, la strategia militare, la governance dei territori, la propaganda, le finanze, i foreign fighters. Un viaggio dall'Iraq all'Afghanistan, dall'Egitto alla Siria, dal Pakistan alla valle del Pankisi, passando per il cuore dell'Europa. Il racconto dall'interno delle ragioni che hanno portato alla nascita e all'affermazione del gruppo guidato da Abu Bakr al-Baghdadi, dentro la storia più ampia del jihadismo contemporaneo.

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sabato 23 maggio 2015

Buone letture

Un vecchio documento Usa desecretato su bin Laden
Da segnalare oggi l'ottima analisi di Giuliano Battiston per Reset. In Nella biblioteca di Osama Bin Laden Ecco cosa rivela su al Qaeda (e sull’IS), l'autore fa un'attenta disamina dei documenti privati che la Cia ha reso noti alcuni giorni fa e  in cui Osama pensa al futuro politico militare di Al Qaeda, alla possibilità di cambiare addirittura nome alla ditta, al pericolo di un'accelerazione verso l'idea del Califfato che viene da uno  dei suoi più fedeli seguaci, Abu Musab al-Zarqawi, il padrino ideologico dello Stato islamico come oggi lo conosciamo e che a un certo punto prefigurò un altro futuro per Al Qaeda. Battiston resta prudente: sa che non tutto quel che leggiamo oggi è la summa completa dei dossier ritrovati ad Abbottabad quella notte di maggio del 2011, notte ora nella bufera dopo nuove ricostruzioni su come veramente andò. I documenti ci dicono dunque qualcosa in più su Osama anche se ancora non consociamo tutta  la verità sulla sua vita da ricercato o, come qualcuno sostiene, da prigioniero. Assolutamente da leggere.

lunedì 31 marzo 2014

Elezioni afgane, conto alla rovescia

Manca ormai meno di una settimana alle elezioni presidenziali del 5 aprile e ormai sono terminati i preparativi per aprire le oltre 6.700 urne sparse per l'Afghanistan (il 10% tra le stazioni di voto rimarrà chiuso per motivi di sicurezza, il 5% in più del previsto) . Tra i tanti link da seguire (l'attenzione è tornata alta su un Paese che la stanchezza del donatore sta ormai abbandonando) c'è il Diario elettorale che Giuliano Battiston sta scrivendo da diverse zone del Paese, in un giro che cerca di capire gli umori complessi che   ammantano l'attesa. Vi rimando pertanto alla sua agenda sul sito di Lettera22 dove il diario viene aggiornato giornalmente.

 Buona lettura

domenica 15 dicembre 2013

ASPETTANDO IL 2014

Domani 16 dicembre alle ore 10, sala Onofri del Ministero degli Affari Esteri (Roma)

Presentazione della ricerca “Aspettando il 2014: la società civile afghana su pace, giustizia e riconciliazione”.

La ricerca fa parte delle attività del progetto “Afghanistan: attività di formazione e di sostegno alla società civile afgana nel processo di ricostruzione e riconciliazione nazionale”, promosso da "Afgana" in collaborazione con ARCS,  Oxfam Italia, Nexus, Aidos, cofinanziato dalla D.G.C.S del Ministero degli Affari Esteri.

Giuliano Battiston, giornalista e ricercatore, ha viaggiato per circa cinque mesi in sette diverse province afgane, analizzando, grazie a numerose interviste e incontri informali, quattro questioni chiave del conflitto: le cause della guerra e i fattori che alimentano la mobilitazione anti-governativa; il processo di pace e riconciliazione; il rapporto tra pace e giustizia; le aspettative per il post-2014, con la conclusione della missione Isaf della Nato.

Oltre all’autore e al rappresentante dell'Ambasciata d'Afghanistan all’evento parteciperanno:

Min. Francesco Fransoni, inviato speciale per Afghanistan e Pakistan del Mae;
Min. Alessandro Gaudiano, responsabile Task Force Afghanistan;
On. Federica Mogherini, Presidente della delegazione parlamentare presso l'assemblea parlamentare della NATO;
Silvia Stilli, Arcs;
Daniela Colombo, Aidos;
Francesco Petrelli, Oxfam Italia;
Leopoldo Tartaglia, CGIL.
*da confermare

Coordinano l’incontro Emanuele Giordana, giornalista e portavoce della Rete “Afgana”, e Lisa Clark,

La presentazione sarà accompagnata dall’esposizione di alcune foto di Romano Martinis, parte della mostra inaugurata lo scorso giugno al centro ACKU, Afghan Center at Kabul University (Nell'immagine la locandina della mostra a Kabul).
Per partecipare è necessario accreditarsi inviando una email a segreteria_arcs@arci.it

lunedì 21 ottobre 2013

(letture consigliate) L'EMEROTECA DI AMANULLAH

Di Giuliano Battiston segnalo spesso gli articoli. E' uno dei rari giornalisti che passa molto tempo in Afghanistan e dunque ha il polso della situazione. Se n'è accorto anche Karzai e ieri il suo portavoce ha rilanciato via twitter l'articolo che Giuliano ha scritto in inglese per Ips. E' una sintesi di un lungo reportage uscito su il manifesto qualche giorno fa e che potete leggere integralmente qui.

Alcuni giorni fa Giuliano Battiston si è recato a Saracha (la foto a sinistra è sua), che è una piccola località della zona orientale dell'Afghanistan, non lontano da Jalalabad dove si è consumata l'ennesima strage Nato a danno di civili afgani. Scrive: "Da qualche giorno, nel cimitero ci sono tre nuove tombe, tre cumuli di terra alti ricoperti di arbusti per evitare che i cani randagi scavino in cerca di carne non ancora decomposta. Lì sotto ci sono i corpi senza vita di Sahebullah, Wasihullah e Amanullah, tre dei cinque ragazzi uccisi a Saracha venerdì 4 ottobre da un attacco aereo dalle forze Isaf-Nato. Per i soldati stranieri erano “insurgents”, Talebani, pericolosi terroristi. Per gli abitanti di Saracha sono dei martiri, uccisi senza ragione. Così recita lo stendardo bianco su cui sono impressi i loro nomi, la loro età, i versetti del Corano".

(English
text extrat): "The dusty cemetery in Saracha village hosts three new graves: small hills of soil shielding the bodies of Sahebullah, Wasihullah and Amanullah, three of the five boys and young men killed by an ISAF-NATO airstrike on late Friday, Oct. 4.
According to the firsts ISAF-NATO reports, the five were “enemy forces”, “insurgents”, killed with a “precision strike”. According to the white banner overlooking their graves, they are “martyrs”: innocent people killed by error. Wasihullah and Amanullah were brothers. They used to live in a house not far from the cemetery in Saracha village in the district of Beshud at the door of Jalalabad, the main city in the eastern province of Nangarhar. Their father, Qasim Hazrat Khan, shows IPS the place where they were killed, just behind his house".)

lunedì 14 ottobre 2013

LETTURE CONSIGLIATE

Giuliano Battiston è un giornalista e un ricerca-
tore. Fa parte di una categoria in estinzione poiché a questi due aspetti (che potremmo definire "professionali") aggiunge il fatto di essere anche un viaggiatore, amante delle strade polverose e dei mezzi pubblici, l'unico vero strumento quando si vuole conoscere un Paese da vicino. Così che i suoi brevi racconti sull'Afghanistan pubblicati in questi giorni su diversi giornali italiani (e che potete leggere su Su Lettera22 ), contengono i tre elementi: la cronaca doverosa del reporter, la profondità del ricercatore che studia e legge, la leggerezza del viaggiatore che conversa, allunga i piedi e guarda dal finestrino annusando l'aria che tira. Messi assieme, questi racconti sono un reportage che cerca di capire cosa gli afgani si aspettano dalle elezioni presidenziale del prossimo aprile. Così che grazie a Giuliano (nella foto ripreso al microfono e non mentre mangia il gelato) anche noi possiamo capire gli umori che attraversano quel benedetto e sfortunato Paese standocene tranquilli a casa nostra senza impolverarci le scarpe.

giovedì 13 giugno 2013

IL FUTURO NELLA SFIDUCIA E NELLA SPERANZA DEGLI AFGANI

Qualche giorno fa abbiamo dato conto dell'intervento di Elizabeth Winter al convegno internazionale di studi sulla società civile afgana che si è tenuto ad Herat il 6 giugno, organizzato dalla rete Afgana. Al suo – che era per lo più un contributo teoretico - ne sono seguiti diversi altri tra cui quello di Giuliano Battiston, che di Afgana fa parte sin dall'inizio e per la quale ha già realizzato una ricerca precedente sulla percezione che gli afgani hanno del concetto di società civile.

Anche questa volta, benché il tema fosse altro e riguardasse aspettative e speranze ma anche la coscienza del proprio passato, Battiston ha cercato di riferire il punto di vista degli afgani o di quella che definiamo società civile afgana*. Cercheremo qui di riassumerne il focus essenziale prendendo spunto dal suo intervento pubblico a Herat. Il suo personale punto di vista Battiston invece lo ha sottolineato molto brevemente e riguarda la cornice attuale: per noi – dice il ricercatore di Afgana- la transizione rappresenta una grande occasione per introdurre più voci afgane nel processo di decisione politica, assenza che gli afgani per primi lamentano.

Dalla sua ricerca sembra infatti emergere e dominare una senso di sfiducia generale. Che non impedisce la speranza – dice Battiston – ma che rende gli afgani piuttosto disillusi: verso il governo, la comunità internazionale, i talebani. I primi due non sembrano in realtà metterci tutto l'impegno che la transizione e il processo di riconciliazione richiederebbero: agli afgani sembrano sbagliati gli strumenti e gli attori messi in campo dal governo che utilizza un approccio inappropriato e inefficace. Un approccio da “bazar” dove ognuno negozia la sua convenienza personale, ossia la sua agenda particolare e non quella del paese. Discorso in cui rientrano a pieno titolo anche i talebani, sulle cui mosse grava l'ombra e di agenti esterni che ne manipolano i piani. Infine questo mercato è lontano dagli sguardi della gente, è chiuso verso l'opinione pubblica. E' un mercato dove si negozia in segreto e che agli afgani intervistati non sembra dare frutti: ne emerge una figura del popolo afgano che lo disegna come molto cosciente sia della propria identità nazionale sia della scarsa trasparenza dei protagonisti attuali che di coscienza nazionale (intesa come interesse pubblico) non sembrano proprio averne. Così alla maggioranza degli intervistati i processi di reintegrazione e riconciliazione sembrano importanti e fondamentali ma anche inefficaci perché strumentalizzati politicamente dalle varie parti in gioco: il governo per farsi bello dei successi, i talebani approfittandone per fare cassa.

La sfiducia sembra generalizzata su più fronti. Dalla ricerca emerge un evidente timore delle agende di Iran e Pakistan e dunque la fiducia negli americani si brucia nel momento in cui si constata la loro scarsa pressione su Islamabad. Anche i talebani finiscono schiacciati dal peso del Paese dei puri. La ricerca, durata 4 mesi e condotta in 7 province, sembra raccontarci un Paese molto diverso da quello che conosciamo. Certamente Battiston tiene conto e riferisce di colloqui con un'intellighenzia ormai diffusa quanto ineludibile che forse non rappresenta tutto il paese nella sua complessità. Ma che sicuramente ne rappresenta la faccia più attenta e più impegnata civilmente (la società civile organizzata) tanto da restituirci, attraverso le tante testimonianze, un Paese che affronta il suo futuro con lucidità e con le idee chiare.
La pace ad esempio. Ci vuole - dicono gli afgani - un doppio approccio: un processo di pace condotto dall'alto e uno condotto dal basso, una “social peace” che renda effettiva la “poltical peace” delle istituzioni. Ma c'è anche la coscienza che troppi problemi irrisolti, specie se riguardano crimini passati e impunità, lasceranno una pessima eredità sul futuro di un Paese dove la vera pace non si potrà ottenere senza coniugarla alla giustizia. E qui torna la sfiducia. Si riuscirà a conciliare pace e giustizia? La maggioranza giudica questa opzione “irrealistica”.

* “La società civile afghana: pace, giustizia e aspettative per il post-2014” è il titolo della ricerca di Battiston alla conferenza internazionale “Società civile afgana in transizione: ruolo, prospettive, sfide, opportunità”cui hanno partecipato tra gli altri Mirwais Wardak (Afghanistan: PRTO, Peace Training and Research Organization) Elizabeth Winter (Regno Unito: LSE, London School of Economics), Fhiam Akim (AIhrc)

mercoledì 5 dicembre 2012

LA BIBLIOTECA DI AMANULLAH (scrittori afgani senza frontiere)


Grazie a un bel pezzo da Kabul uscito ieri su il manifesto a firma di Giuiano Battiston sulla scena culturale e letteraria in Afghanistan, ho appreso del numero di maggio della rivista online Words without Borders che parla degli scrittori afgani (e da cui è tratta la foto qui sotto. Una vera chicca per gli amanti del genere e che mi permetto di consigliarvi

L'incipit del pezzo mi pare anche molto corretto: Much of what is said and written about Afghanistan in the West today is still tainted by an outside perspective on the situation—a narrative that keeps repeating and reformulating earlier misconceptions and generalizations...continua

sabato 20 ottobre 2012

DELUSIONI E SOLUZIONI AL SALONE DELL'EDITORIA SOCIALE

Son rimasto un po' deluso, se è lecito criticare i mostri sacri, dal dibattito cui ho assistito ieri sera al Salone dell'editoria sociale, che resta un degli appuntamenti più interessanti di questo caldo autunno romano. In scena andavano Robert Fisk, corrispondente dell'Independent da Beirut, penna caustica e brillante in un reporter coraggioso e che non le manda a dire, e Tariq Ali, intellettuale pachistano che ha scritto saggi interessanti e persino sceneggiature e romanzi: un volto da nobile punjabi e una esposizione chiara e convincente.

Il fatto è che io, come credo la maggior parte degli astanti (Fisk lo sapeva poiché continuava a rivolgersi al “pubblico di sinistra” della sala) già sappiamo che gli americani e gli israeliani sono cattivi. Che i primi dominano il mondo e amano far la guerra e pilotare gli avvenimenti e che i secondi stanno facendo patire ai palestinesi le pene di un inferno senza fine (altrettanto ovvio che parliamo dei loro governi). Nel mondo di oggi, ricordarmi queste cose non mi dice molto. Conosco il problema e ho bisogno di soluzioni, di analisi, di proposte. Proposte ne ho sentite poche, soluzioni anche, a parte quel che Fisk, e mi è parsa l'unica cosa davvero importante che ha detto, ha ripetuto più volte: che “i palestinesi non avranno mai uno Stato”. Anche questo (che in un certo senso è una ...soluzione) lo sappiamo tutti ma è vero che nessuno lo dice mai a chiare lettere.

Tra i due, assai professionalmente moderati da Giuliano Battiston, ho invece apprezzato di Tariq Ali l'analisi sul voto giovanile che, in Europa e negli Usa, va verso lo zero. Nei Paesi arabi c'è voglia di votare, da noi no. La politica – ha aggiunto – è morta e forse dovremmo resuscitarla. Ecco, questo è un pensiero che mi è ha arricchito, mi stimola a pensare. Ma non ho ricevuto molte altre suggestioni dalla serata che, visti i calibri, mi è sembrata alla fine un po' deludente. Infine, ma ciò conta poco, non sono molto d'accordo sulla tesi del libro di Ali “Sindrome Obama”, uscito per Baldini e Castoldi. Tariq Ali ha ragion quando dice che Obama, con la sua idea di “guerra giusta”, ha fatto fare all'occupazione in Afghanistan, un'escalation e che ha sparato in Pakistan più droni che in otto anni di amministrazione Bush. Verissimo (specie la seconda parte ma anche perché in quegli 8 anni i droni sono stati perfezionati) ma è anche vero che quei 30mila soldati in più sono stati adesso ritirati e che nel 2014 la maggior parte delle truppe Usa se ne andrà dall'Afghanistan. Si può dire che tra Bush e Obama c'è un filo di continuità, ma non li si può equiparare. Uno scatenò la guerra, l'altro sta cercando di farla finire (per milli motivi incluso il budget). La politica estera americana è spesso molto uguale sia che governi un democratico sia che si tratti di un repubblicano, ma trovo che equiparare Obama a Bush sia, se non altro, un po' azzardato. Anche perché un presidente non si esaurisce nella politica estera.

Detto questo lasciatemi dire che sono stato fortunato. Per problemi di parcheggio sono arrivato al Testaccio (quartiere romano dove si tiene il Salone) mezz'ora prima. In tempo per sentire Maurizio Landini, segretario nazionale della Fiom. Accidenti, l'ho letto e visto qualche volta sul web (non ho il televisore) ma dal vivo mi ha davvero colpito. E non solo perché è un uomo dal carisma evidente e dalla travolgente passione politica condita da una grande capacità affabulatrice. Ma perché Landini, se dice dieci cose, tre son di critica o denuncia e sette sono proposte. Simpatico o no che possa essere, d'accordo o meno che siate con lui, quell'uomo analizza un quadro, ne critica sfondo e colore ma poi ti dice, non tanto come andrebbe modificato ( e qui sta la sua vera anima di negoziatore), ma come si potrebbe modificare: suggerisce idee, propone soluzioni, indica percorsi.

Grazie a Tariq Ali e a Robert Fisk ho scoperto Landini. Che mi permetto di consigliarvi.

sabato 21 aprile 2012

GALASSIA TALEBANA

"Gli attacchi – dice Antonio Giustozzi – non vanno attribuiti agli Haqqani, ma sono un sintomo della dialettica interna al movimento dei turbanti neri, per dire no al negoziato; il Pakistan ha dato l'imprimatur all'operazione, ma ha fretta di chiudere la partita negoziale; Karzai non pensa al benessere del paese, ma a proteggere i suoi interessi, tra cui quelli legati ai contratti stipulati con la Cina per lo sfruttamento delle risorse (che prevedono una quota per il suo “circolo”); gli americani cercano un accordo di partenariato con l'Afghanistan, ma più che alle basi militari pensano a salvare la faccia; i Taleban rischiano che il Pakistan soffi loro la vittoria militare e simbolica"...

E' la sintesi dell'ottima intervista che potete leggere su Lettera22 o su Il manifesto e che Giulaino Battiston ha fatto ad Antonio Giustozzi, forse il più esperto conoscitore della galassia talebana. Merita davvero una lettura

mercoledì 8 febbraio 2012

COSA PENSANO DI NOI GLI AFGANI

A oltre dieci anni dall'inizio del conflitto che determinò la fine dell'Afghanistan dei talebani, gli afgani pensano di essere stati ignorati dalla comunità internazionale nelle loro scelte e aspirazioni. Pensano di esser stati tenuti a margine di processi decisionali presi sula loro testa e credono che poco sia stato fatto in termini di sviluppo, stabilità e sicurezza. Ciò non di meno, temono che l'uscita di scena degli eserciti che occupano adesso il suolo afgano possa nuovamente precipitare il Paese nel caos e, al contempo, paventano che l'abbandono dell'opzione militare si trasformi in un abbandono definivo dell'Afghanistan e della sua gente.

E' quanto emerge con crudezza da Le truppe straniere agli occhi degli afghani. Opinioni, percezioni e rumors a Herat, Farah e Badghis, una ricerca condotta, per conto della Organizzazione non governativa italiana Intersos, da Giuliano Battiston, giornalista e saggista con una lunga esperienza nel Paese dell'Hindukush. Battiston ha messo insieme lavori precedenti al suo, ricerche e sondaggi, incrociando il lavoro di ricerca in biblioteca con una lunga permanenza sul campo nella regione sotto comando italiano, il Regional Command West. Ne esce un quadro in parte già noto e in parte inedito. Comunque sconfortante e che dimostra che, al di là della propaganda, gli afgani hanno sempre meno fiducia nei loro “salvatori”, pur se preferiscono al caos una loro più prolungata permanenza, anche oltre il 2014, data finale per il ritiro delle truppe straniere.

Battiston spiega che il dato più evidente che emerge dalla ricerca è “uno scollamento tra le opinioni espresse ufficialmente dai rappresentanti delle cancellerie occidentali e quelle degli afghani”. I primi sostengono di aver stabilizzato il Paese, i secondi dichiarano al contrario che la comunità internazionale ha “fallito nel garantire la sicurezza alla popolazione” senza produrre “i risultati sperati”. Quei pochi “risultano fragili e temporanei”, percezione che si traduce in un “sentimento molto diffuso di sfiducia verso le forze internazionali, anche tra coloro che gli avevano accordato credito all’inizio dell’intervento militare, nel 2001”. Diffusa poi la convinzione che le attività militari siano state “negativamente condizionate dalla pluralità di orientamenti, di tattiche, agende e obiettivi perseguiti dai singoli contingenti”. Molti lamentano inoltre uno squilibrio “tra i fondi allocati e distribuiti per le operazioni militari e quelli destinati all’aiuto allo sviluppo e all’assistenza delle comunità locali” e rivendicano “un maggiore coinvolgimento nella progettazione, nella realizzazione e nel mantenimento dei progetti, giudicati comunque insufficienti”. Per gli afgani infatti, “sicurezza” è anche “autosufficienza e sostenibilità del sistema economico; piani di ripristino di un quadro istituzionale funzionante e trasparente; strategie per edificare un sistema di diritto efficiente, garanzia di giustizia, uguaglianza e di tutela dagli abusi”. Un tema che ritorna quando alcuni degli intervistati spiegano al ricercatore che “la rivendicazione di giustizia per i crimini passati” non deve essere “subordinata del tutto alla ricerca della pace”. Un chiaro no, insomma, all'impunità.

Alle forze internazionali viene anche imputata una scarsa considerazione delle conseguenze che le loro operazioni hanno sulla popolazione civile: “l’incapacità di distinguere i civili innocenti dai “ribelli”, l’uso indiscriminato di bombardamenti e raid notturni, la violazione degli spazi domestici” messe in atto da soldati che sembrano agire “ fuori di ogni quadro giuridico certo, rispondendo soltanto ai propri codici di condotta” il che ha fatto crescere sfiducia e diffidenza nei loro confronti, “insieme all’idea che siano in Afghanistan per promuovere o difendere i propri obiettivi strategici” anche se “la maggior parte degli intervistati ritiene che non vadano ritirati e che, anzi, debbano restare oltre la data annunciata del ritiro, il 2014” (Vedi la sintesi dell'ultimo rapporto Onu sulle vittime civili) .

E la pace possibile? Pur sottolineando l’inefficacia della soluzione militare, gli afgani “sostengono la via della riconciliazione (e) della soluzione politico-diplomatica, e ritengono che escludere a priori ogni ipotesi negoziale significhi condannare il paese a un conflitto permanente”. Ma le idee a riguardo restano abbastanza vaghe e confuse anche fra gli afgani, spiega Battiston. Come forse lo sono, aggiungiamo noi, anche nelle nostre teste.

Anche su Il Fatto Online

martedì 31 gennaio 2012

COSA PENSANO GLI AFGANI DELLE TRUPPE INTERNAZIONALI?

Presentazione della prima ricerca sulle percezioni degli afghani, realizzata nella regione Isaf-Nato sotto responsabilità italiana


«Le truppe straniere agli occhi degli afghani. Opinioni, percezioni e rumors a Herat, Farah e Badghis» è una ricerca promossa dall’organizzazione umanitaria Intersos, attiva in Afghanistan, e realizzata da Giuliano Battiston, giornalista e ricercatore, già autore di ricerche e reportage dall’Afghanistan. Tenendo presente la letteratura accademica in materia, essa si basa su una serie di interviste realizzate nel 2011 nelle tre province citate, che si trovano nell’area del comando regionale occidentale Isaf-Nato, sotto responsabilità italiana...Leggi tutto su Lettera22

(la foto è di Romano Martinis)

sabato 26 febbraio 2011

CERCANDO LA SOCIETA' CIVILE

La società civile afghana è variegata e attiva, ma è poco coinvolta nel processo di sviluppo del Paese e la comunità internazionale, se se ne occupa, lo fa con miopia, puntando solo su Ong che erogano servizi. Il dato emerge dal rapporto "La società civile afgana. Limiti e potenzialità", curato da Giuliano Battiston e basato su un'analisi della letteratura esistente e su tre mesi di ricerca in otto province afgane. La ricerca rientra in un progetto più ampio di Afgana con il contributo della Cooperazione Italiana, di Link2007 e dell'Università degli studi di Milano (coordinamento di Elisa Giunchi).

Leggi tutto su Ntnn

venerdì 26 novembre 2010

COME TI SPIEGO LA GLOBALIZZAZIONE

Gli editori (contemporanei) non amano le collettanee. Nemmeno se gli autori sono intervistati da un solo artigiano di quel complesso lavoro che è mettere a confronto, su un tema, teste diverse. Li guardano, i libri con tante firme, col sospetto dettato dalla pratica abitudinaria di un mondo dove l'identificazione tra saggio e autore è più televisiva che di contenuto. Tante apparizioni, tante copie vendute. Se poi gli autori sono, almeno in parte, sconosciuti al grande pubblico, se non bazzicano Ballarò o almeno C'è posta per te, che senso ha?

Ma nelle stanze
delle Edizioni dell'Asino questo genere di problemi non sembra (fortunatamente) albergare. Così che Giuliano Battiston, membro storico del gruppo che gravità attorno alla creativa intelligenza non omologata di Goffredo Fofi, ha potuto agevolmente pubblicare 300 pagine che solo il numero degli autori intervistati potrebbe indurvi a non affrontare. Ma il ragionamento è semplice: per avvicinarsi alla complessità del concetto di globalizzazione, ci si può affidare a una testa sola? Sarebbe una contraddizione in termini. E dunque, valigia in mano (Battiston è della scuola dei “camminatori”, giornalisti che oltre a succhiare la penna consumano le scarpe) e microfono in tasca, il curatore di questa collettanea di venti interviste affronta coi suoi interlocutori la sfida di raccontare, attraverso le loro risposte, cosa significa un termine – globalizzazione - che, tra uso e abuso dello stesso, ha quasi finito per perdere di significato (o ha assunto la valenza economicista, ovviamente riduttiva).

Nel suo percorso
Battiston cerca, da Samir Amin a Mohammed Yunus, da Walden Bello a Vandana Shiva, di restituire le interpretazioni che una generazione di intellettuali ha provato a scrivere. Ne esce un quadro complesso dove la globalizzazione e gli Stati nazionali, nella politica, nell'economia, nei mutamenti sociali indotti, si incontrano e si scontrano per trovare una bando della matassa che la sola spiegazione tecnologica non saprebbe raccontare. A cominciare dal linguaggio, nel quale il termine globalizzazione ha preso prepotentemente posto continuando a essere un interrogativo. A cui venti brevi saggi, curati da una mano attenta, tentano di dare una risposta.

G. Battiston
Per un'altra globalizzazione
Edizioni dell'asino
pp 298
euro 15,00

domenica 14 novembre 2010

I TALEBANI E LA PROPAGANDA


Per chi non lo avesse ancora letto, su il manifesto di ieri c'è un interessante di Giuliano Battiston che dà conto da Kabul di una lettera dei talebani al Congresso americano. Ora, si può non essere d'accrdo con quel che i talebani dicono (la guerra è persa e i generali vi contan frottole) e bollare la lettera di Qari Muhammad Yusuf Ahmadi (uno dei portavoce del movimento riconducibile alla shura di Quetta) come propaganda, me voi ne avete letto una riga da qualche parte? Non dico sui giornali italiani, ma nemmeno su quelli stranieri c'è una "breve", se si esclude un lancio della France Press quando la lettera fu divulgata. E forse poco altro che mi è sfuggito.

Inizialmente
la cosa ha stupito sia me sia Giuliano, che siamo forse degli ingenui cronisti ancora convinti che, in questo mestiere, si debbano riportare le notizie. Ma l'amara verità è che sulla guerra afgana si riportano solo certe notizie. Quelle che riguardano il "nemico" no, silenzio stampa. Bizzarro. Adesso tutti volgiono trattare coi talebani però, per sapere quel che dicono bisogna fare una ricerca estanuante anche perché i loro siti vengono oscurati ogni due per tre.

In compenso, ci raccontano i giornalisti di Kabul, Nato e americani stanno mettendo in opera un'offensiva mediatica milionaria che è una vera e propria guerra di propaganda. E siccome (noi soprattutto ma anche gli altri non sono da meno) scriviamo dell'Afghanistan solo quando la pista la apre il New York Times, ecco che tutti i pesci abboccano all'amo. Non so se avete fatto caso al processo di pace ad esempio: per due settimane se n'è parlato come se fosse lì, a portata di mano. Poi, più nulla. E siccome ne aveva parlato il Times, tutti dietro per due settimane. Poi zero, perché adesso i giornali americani sono alle prese con gli effetti delle elezioni e la macchina della propaganda si sta risistemando in attesa di gettare la prossima esca a giornalisti e lettori.

Non voglio dire che il Nyt o il Post siano il braccio armato della propaganda Nato. Non mi permetterei e sarei un cretino a dirlo. Ma la macchina della propaganda non è fatta solo di giornali o giornalisti al soldo. E' fatta di notizie che si fanno filtrare, di anonimi fuinzionari che hanno detto, di trasparenti diplomatici che spifferano questo o quello...Il Nyt, così come Lettera22 o Repubblica, sono spesso vittime di questo ingranaggio che è difficile da contrastare. Ma vale la pena, ogni tanto, almeno di pensare che esiste, che è potente, che governa in parte le sorti della guerra e la sfera della nsotra penna. Una guerra così lontana ma, quando la macchina è ben oliata, anche così vicina