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martedì 30 gennaio 2018

La Taranto del Nord. Sotto il tappeto della città cartolina

Era il settembre del 2012 quando uscì la mia prima inchiesta sulla ferriera di Servola, a Trieste. La pubblicammo su Terra (il mensile cui lavoravo allora e che l'insipienza del suo editore trascinò al fallimento) e poi organizzammo un incontro con il sindaco, l'associazione NoSmog e la cittadinanza per parlarne. Ci sono tornato nel dicembre dell'anno scorso, a distanza dunque  di cinque anni, per vedere a che punto eravamo arrivati e per scoprire che le bocce erano, più o meno, allo stesso punto. Ne è uscito in gennaio un reportage per Internazionale che, mutatis mutandis, sembra quasi "copiato" da quello del 2012. Solo la sofferenza dei residenti è cambiata: è aumentata, come i danni alla loro salute.  Un ieri e un oggi che sembrano maledettamente simili a domani...



La foto di apertura (di M. Borzoni) con cui Internazionale ha aperto
il servizio pubblicato sull'edizione online del settimanale. Sopra,
la copertina di Terra con le foto di M. Bulaj che illustravano il reportage

Lasciata l’autostrada a Duino, la cittadina che annuncia la costiera triestina, ci sono una ventina di chilometri per raggiungere il capoluogo del Friuli Venezia Giulia. Venti chilometri che si dipanano tra una serpentina di curve appoggiate alla montagna carsica a strapiombo sul golfo. Il paesaggio è sempre spettacolare in qualsiasi stagione si percorra la costiera. Sui pendii di roccia grigia e frastagliata si allunga in estate l’ombra dei lecci e, d’inverno, le chiome di queste querce sempreverdi disegnano di colore la passeggiata sul mare. In autunno le foglie rosso carminio del sommacco puntellano il bosco che all’inizio della stagione calda si riempie di asparagi selvatici e di altre specie vegetali che ne fanno un museo a cielo aperto di biodiversità. Il golfo, sulla vostra destra mentre raggiungete Trieste, è un enorme bacino che non ha quasi orizzonte. Le nuvole sono rare e spesso la bora, il vento gelido che spira da Nord, spazza un cielo terso per gran parte dell’anno. Piccoli sentieri scendono al mare dove trattoriole senza pretese preparano cozze e spritz che qui si beve, come a Gorizia, con vino bianco miscelato ad acqua. La montagna offre invece l’accoglienza delle osmice (osmize), piccoli ristori a conduzione famigliare dove il proprietario, e solo in certi mesi, può offrirvi in casa sua i prodotti della sua terra, dal vino al formaggio, ai salumi. Niente dannatissimi scontrini e un’atmosfera di frontiera che si percepisce già nel nome, condiviso con lo sloveno.



L’arrivo in città infine è un’ennesima splendida sorpresa: ignorando i pochi sfracelli dell’edilizia più recente e tralasciando quel che si trova dietro i muri che nascondono la ferrovia e il vecchio porto, i primi palazzi otto-novecenteschi del capoluogo ti guidano sino al lungomare, annunciato dalle “rive” - canali che portano il mare fin dentro la città - e poi dal molo “Audace”, una lunga e antica gettata di cemento, costruita sul relitto di una nave affondata nel 1740, che si protende nel golfo come se la città si proiettasse in mare. Opposta al lungomare, la Trieste asburgica ti avvolge in un'atmosfera d’altri tempi dove, nei caffè di Piazza Unità, si bevono tiepidi caffè col cioccolato mentre l’ombra dei grandi edifici bianchi, tra cui quello che ospita il Comune, annunciano scoperte architettoniche ben conservate e specchio del tempo in cui questa città alla propaggine più orientale dell'Italia era il porto per eccellenza dell’Impero con l'aquila a due teste. Insomma, una delizia, arricchita da un elemento davvero speciale: d’estate, nei week end o dopo le cinque, la città va in massa al mare. Impiegati, operai, dirigenti, famigliole della classe media e ragazzi d'alto bordo bighellonano a Barcola o lungo la costiera e, per i più audaci, c’è persino qualche tuffo dal molo Zero, dietro le transenne che nascondono i cascami del porto vecchio. Sorpresa, anche a pochi passi dal centro, il parcheggio non si paga. Avete lasciato piazza Unità da cinque minuti e già vi state proiettando con la stuoia e le flip flop nelle prime piattaforme a terrazza disponibili (i “topolini”) per assaporare le delizie marine di questa città cartolina.

Come tutte le cartoline e tutte le medaglie anche Trieste ha però il suo rovescio. Ma potreste non
accorgervene, soprattutto se restate in città tre o quattro giorni, abbastanza per vedere musei e palazzi e aggiravi tra osmize e ristorantini dove fanno pescetti fritti o sardoni in savòr (alici marinate). Tutto è ben occultato sotto il tappeto fluorescente e abbagliante del salotto buono che vi aspettava, in piazza Unità, alla fine della costiera. Il salotto buono, la città vecchia come la costiera, si intende, restano. Ma c’è anche altro, un po’ meno cartolina anche se altrettanto fluorescente e stupefacente. Se con la macchina percorrete il lungomare per tornare a prendere l’autostrada verso Est, cioè verso Lubiana, fatto qualche chilometro che costeggia il porto nuovo e un esteso polo della logistica che un tempo era appannaggio di Fincantieri, svoltate in sostanza un pezzo di promontorio e vi trovate proiettati in una sorta di inferno industriale. Mentre il cavalcavia sale all’altezza dei piani più alti degli edifici alla vostra sinistra, sul lato destro appare una sorta di mostro ferroso male in arnese da cui escono fumi e vapori dall’aria minacciosa. Complice la posizione e il vento, i fumi prodotti dall’impianto industriale di Servola, un’acciaieria che qui chiamo “ferriera”, restano tutti ben nascosti dietro la curva dalla quale siete stati proiettati da una cartolina d’antan in una sorta di inferno dantesco. E sì, perché l’acciaieria di Trieste, assai meno nota della sorella tarantina, non ha nemmeno quel piccolo braccio di mare che a Taranto divide l’impianto dalla città. La ferriera è ben impiantata in tre piccoli nuclei urbani cresciuti nel tempo fino a formare una popolazione di 30mila anime, quasi un sesto della popolazione della città. Il mostro urbano scarica i suoi fumi e suoi vapori, per non dire meno prosaicamente i suoi veleni e le sue polveri più o meno sottili, sulle case piccole e grandi del tessuto periferico, sugli asili, nei rari parchetti, su finestre e balconi e, ovviamente, nel sangue e negli alveoli polmonari di chi abita o lavora da quelle parti. Nelle case del quartiere di Servola, la polvere si fa tre volte al giorno e la notte, quando coi fari illumini la strada, c’è un luccichio come di piccole scintille che non è la polvere di stelle dell’ultimo dell’anno ma l’effetto di un minerale che il vento disperde. Se Servola è il diavolo e Trieste l’acqua santa, il vostro viaggio sembra trasformarsi in una via crucis soprattutto se pensate a quello che respirava chi vive qui.

La ferriera ha una storia antica come antichi sono i tentativi, sia dei cittadini sia delle amministrazioni pubbliche, di raffreddare una patata – è il caso di dirlo - sempre bollente. Lo stabilimento, che si estende su un’area di oltre 500mila metri quadri con cokeria, due altiforni, impianto di agglomerazione e la macchina a colare per la solidificazione della ghisa, era in origine un fiore all’occhiello di una società di Lubiana. Nata austroungarica nel 1896, diventa italiana negli anni Venti. All’inizio la affitta un gruppo locale ma poi diviene Ilva. Negli anni Ottanta si privatizza: prima Pittini, poi Lucchini. Ma la ferriera è sempre un problema: rimodernarla costa e la siderurgia perde pezzi in tutto l’Occidente. Agli imprenditori si alternano i commissari, poi nel 2015 arriva Giovanni Arvedi: cremonese, cattolico, uno che l’acciaio ce l’ha nel sangue. Rileva l'impianto e si impegna a mettere le cose a posto. Il primo punto dell’accordo è che l’area a caldo (la più inquinante) venga chiusa se non scenderanno i livelli di benzo(a)pirene, un idrocarburo cancerogeno, cosa che Arvedi rivendica di aver fatto. Tutto a posto? Secondo Legambiente le cose a posto non sono affatto perché il BaP non è l’unico inquinante. Le associazioni di cittadini inoltre lamentano scarsa trasparenza: NoSmog, la più vecchia organizzazione ambientalista di Servola, denuncia l’assenza di centraline di monitoraggio, le duemila chiamate dei servoliani alla polizia per via di polveri, fumi, odori e rumori e stima che chi vive nei pressi della ferriera sia stato esposto per l’equivalente di 25 anni ai limiti massimi sostenibili di BaP e PM10. Un sindacato autonomo di insegnanti della Italo Svevo (asilo, elementari e medie) chiede conto di un aumento di patologie oncologiche e spiegazioni sul fatto che agli alunni sia stato impedito l’accesso al giardino della scuola. I più arrabbiati, aderenti al Comitato 5 dicembre, hanno organizzato un lunghissimo presidio in città. Ma la ferriera sembra un muro di gomma. Il piano di copertura dei parchi minerali (una massa di polvere compatta che si allunga in mare e che svolazza nell’etere) vanno a rilento, le centraline di monitoraggio sono insufficienti, la trasparenza e la ricerca sui dati dei veleni scarsa. Arvedi dal canto suo ha gettato il guanto di sfida minacciando di chiudere baracca e burattini. Il suo piano di scalata all’Ilva di Taranto, che gli avrebbe permesso in teoria di chiudere l’area a caldo di Servola, è rimasto un sogno. La ferriera resta un nervo scoperto.

Regione vs Comune o viceversa
Tra gli interessi dell’industriale e la salute del cittadino c’è di mezzo l'amministrazione pubblica: il Comune e ovviamente la Regione, al momento in stato di coabitazione politica tra un sindaco di destra, Roberto Dipiazza, e una governatrice di sinistra, Debora Serracchiani. Dipiazza è un signore dall’aria simpatica e rassicurante: giacca blu e cravatta regimental su pantaloni di vigogna, scarpa Oxford liscia e lucida. Piace alle signore bene di Trieste ma ha fatto razzia di voti anche nella Stalingrado locale: a Servola cioè. Il suo asso nella manica è stata la ferriera. Aveva infatti promesso di chiudere in cento giorni l’area a caldo. Promessa per altro ciclica e centrale a ogni tornata elettorale. Adesso i cento giorni son diventati sei mesi ma per Dipiazza resta una certezza. Il problema di ricollocare almeno 300 operai, uno dei grandi temi sindacali che hanno sempre salvato l’esistenza dell'impianto che ne impiega circa 600, non è più un problema: «Sono appena tornato da Roma con 18 milioni – dice - e altri 65 ne arriveranno dagli austriaci che vogliono investire a Trieste e poi ci sono i cinesi». Già i cinesi. Avrebbero ideato di includere la città in un hub della Nuova Via della Seta e inoltre, dice il liberista Dipiazza, «...è chiaro che i lavori pesanti di un’acciaieria li faranno loro a prezzi più bassi. Non servirà più produrre ghisa: la compriamo in Cina e la lavoriamo a Trieste». Alta tecnologia contro terzo mondo, una scommessa per il capoluogo che nel 2020 sarà “Città della scienza” europea. Comunque la chiusura dell’aera a caldo e la revisione dell’Aia (Autorizzazione Integrata Ambientale) sono le continue richieste di ambientalisti, cittadini e associazioni, in questo momento – con l’esclusione del Comitato 5 dicembre – alleate al municipio.

L’area a caldo della ferriera è dunque da sempre anche l’area a caldo della politica triestina assieme al porto, altro cahier de doléance. Ma secondo qualcuno è solo un gioco di parole che serve a tener buoni i residenti e a pescare voti. Nel cuore della città, ricco e diviso tra conservatori e progressisti, o in periferia tra gli operai di Stalingrado che questa volta han premiato la destra. «Del resto – dice una signora di un’associazione ambientalista – di chi possiamo fidarci? Tutti promettono la chiusura dell’area a caldo ma nessuno lo fa. Di Piazza ha già fatto due mandati e niente. Poi c’è stato un primo cittadino del Pd, Roberto Cosolini, e niente. Vediamo se stavolta Di Piazza sarà di parola. Non abbiamo al momento altra scelta”. In Regione la pensano diversamente. La scelta c’è eccome. Si chiama in parte, ancora una volta, Cina. Il consigliere Giulio Lauri, un geologo prestato alla politica, elenca i segnali positivi degli ultimi anni che hanno soprattutto un nome: porto vecchio. E’ una struttura gigantesca affacciata sul mare all’inizio della città. In completa rovina e ormai inservibile, è un’area di capannoni dismessi e una discarica a cielo aperto di traversine ferroviarie, vecchie pavimentazioni urbane, masserizie e gatti selvatici nascosti da una fitta palizzata di cemento e rampicanti. Bloccato da una gestione conservatrice – per anni nelle mani di Marina Monassi, allora presidente dell'Autorità portuale e compagna dell’ex senatore triestino Giulio Camber, un craxiano di ferro passato a Forza Italia – dal 2015 porto vecchio è diventato un miracolo: la sua sdemanializzazione (il passaggio cioè dal demanio statale al Comune di Trieste) consente infatti di “trasferire” una parte della sua superficie nell’area del porto nuovo rendendolo più efficiente. «Tanto efficiente – spiega Lauri – che i cinesi hanno capito che la nostra città è la punta più a Nord dove far arrivare le merci nel cuore del Vecchio continente, con un risparmio di almeno tre giorni che non passando dai porti dell’Europa occidentale. Il traffico del porto nuovo ha già subito incrementi importanti perché abbiamo snellito procedure e cercato alleanze. Questa – conclude Lauri – non è già più la città del no se pol...», detto locale tristemente famoso. Insomma da porto fermo a porto franco con più merci e più lavoro, forse ghisa cinese. «Ma c’è altro. Il turismo è in aumento, tante le attività culturali, e la città sta consolidando il suo Polo scientifico e tecnologico, il più grande d'Italia», che vanta una concentrazione di ricercatori tra le più importanti d'Europa. Ecco quel che dovrebbe essere la Città della Scienza 2020 (progetto che prevede la trasformazione di parte del porto vecchio, cinque auditorium, sale convegni, esposizioni, mostre, nuovi uffici), con centri di ricerca e istituti nazionali e regionali italiani, europei, internazionali: dalla fisica alle biotecnologie, dalla genomica alla fisica dei materiali, dalla microelettronica e dall’ informatica alla ricerca applicata all'industria farmaceutica e alimentare… Se son rose fioriranno. Come i fiori del sommacco.

Boris Pahor, cent'anni di liucidità
Lasciandosi alle spalle Servola però quel senso di malessere rimane nelle ossa. E resta la domanda
sul futuro di quei residenti e di questa città: industriale, post industriale, hub logistico, polo tecnologico, meta turistica e culturale? Tornando verso Duino ci riceve Rosella Ideo, una delle più note coreaniste italiane. Milanese di nascita, triestina di adozione, vive in una villetta a strapiombo sul golfo con un panorama mozzafiato. Indica il castello di Miramare e ricorda una famosa ode barbara del Carducci: O Miramare, a le tue bianche torri..., dedicata alla sfortunata impresa americana che aveva visto l’arciduca Massimiliano diventare imperatore del Messico (poi fucilato dagli oppositori repubblicani). Tradotta nel volgare locale, così recita una riedizione apocrifa: Massimiliano, non ti fidare, torna al castello di Miramare. Quel trono facile di Montezuma è un nappo gallico colmo di spuma… «Restituisce il senso di un luogo protetto cui restare aggrappati, chiusi su se stessi con un porto e un aeroporto poco valorizzati e infrastrutture – dice Ideo - che restano carenti in una città anziana con poca offerta per i giovani che vanno altrove. Lo stesso polo scientifico, bellissima idea e fiore all’occhiello, è sempre rimasto avulso dalla città e alla fine si è anche provincializzato. Mio marito, che ci ha lavorato per anni, mi diceva: abbiamo iniziato parlando inglese e abbiam finito parlandoci in triestino… C’è come un’incapacità di cambiare, di avere una visione sul futuro, di liberarsi di un occhio nostalgico. E fa specie – conclude – che una città formata da tante nazionalità resti così restia all’accoglienza della diversità».

Su questo punto allora bisogna sentire Boris Pahor, scrittore sloveno che vive in una casa affacciata sulla scogliera che molti gli invidiano come invidiano la lucidità di quest’uomo minuto e gentile di 104 anni. Pahor ha visto bruciare dai fascisti nel 1920 la Narodni dom, la Casa del popolo di una minoranza che ha scarsa cittadinanza in una città dove vivono italiani, slavi, turchi, greci e adesso afgani o siriani. Le curve della chiesa ortodossa o le mura della sinagoga sembrano far cornice all’incontro: «Credo che l’Italia dovrebbe fare oggi quel che non ha fatto dopo l’unità - dice questo Figlio di nessuno, autore di Necropoli e de Il rogo nel porto – ossia creare una federazione dei vari staterelli e unirli in un’unità che ancora non c’è, se uno pensa al Sud. Questo vorrebbe anche dire riconoscere il valore delle identità, delle minoranze che sono una ricchezza, una risorsa. Certo, dipende anche da come sarà il futuro dell’Europa e se vorrà rimanere un'Europa plurale. E così a Trieste: perché in questa città l’identità di ognuno deve essere difesa e valorizzata. Qui siamo italiani, dicevo qualche tempo fa a degli studenti, ma restate fedeli alla vostra identità: friulana, slovena, tedesca, quale che sia. L’identità è la base di una sicurezza che chiamerei addirittura sanitaria. Verranno i cinesi? Chissà se non si sarà obbligati a parlare cinese tra cinquant’anni; ma si dovrebbe poter restare anche italiani o sloveni». Scommessa su una città plurale, mista, aperta come il grande golfo che la abbraccia. Sul lungomare cittadino una coppietta ci dà delle indicazioni in italiano. Ma quando parlano tra di loro, comunicano in sloveno. Forse hanno uno dei tanti cognomi italianizzati a cui li obbligò il duce in nome di un’identità niente affatto plurale. E Trieste è anche questo. Dietro la facciata di una città cartolina, di una bellezza struggente e affascinante, ci sono ancora troppe cose irrisolte scopate sotto il tappeto. O, come la ferriera, nascoste da un promontorio.







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