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giovedì 22 marzo 2018

Bombe sul nuovo anno

Il Nawroz è una ricorrenza tradizionale persiana che corrisponde all’equinozio di primavera e che celebra il nuovo anno: dall’Iran all’Albania, dalla Bosnia all’Azerbaigian. Sceglierla per fare strage, com’è avvenuto ieri in Afghanistan, sembra lontano da qualsiasi logica anche perché il nuovo anno lo celebrano sia sunniti sia sciiti. Il terrorista – lo Stato islamico ne ha rivendicato l’azione – che ieri si è fatto esplodere, ha scelto un’area, quella dell’Università non lontana da un luogo di culto, dove si può massimizzare il risultato perché è una delle zone maggiormente frequentata di Kabul, ci sia lezione o meno. Mentre scriviamo il bilancio delle vittime aveva già superato la trentina andandosi ad aggiungere morti a quello che proprio in questi giorni è stato ricordato anche dalla Commissione nazionale afgana per i diritti umani come l’anno peggiore per numero di vittime civili. Molte lo sono per stragi che avvengono in gran parte nella capitale, da sempre luogo prescelto per la sua eco mediatica ma ultimamente anche terreno di scontro tra talebani e Stato islamico in una sorta di rincorsa al suprematismo terrorista.

Al di là dell’attentato di ieri firmato dallo Stato islamico, una frangia di quel che resta del progetto di Raqqa e che si è ormai ridotta in Afghanistan ad atti stragisti dimostrativi, la sequenza di attentati delle ultime settimane (sabato scorso ai danni di una base di mercenari stranieri) sembra aver decretato la fine definitiva di qualsiasi speranza di negoziato tra le parti. Alcune settimane fa i talebani, in una lettera aperta ai cittadini degli Stati Uniti, avevano offerto un ramoscello d’olivo respinto da Washington ma subito raccolto dal governo afgano e con un’apertura senza precedenti per un dialogo interafgano con la guerriglia. Ma i talebani restano fermi sulla precondizione di un'uscita di scena delle truppe straniere e chiedono quindi semmai di parlare con gli americani e non con i loro “burattini” a Kabul.

In questa difficile situazione, in cui ogni possibile spiraglio negoziale è appeso a un filo, gli Stati Uniti, imbaldanziti dalle aperture di una piccola fazione talebana, hanno creduto che la mossa vincente risiedesse nella politica appena inaugurata da Trump: una carota appesa a un bastone. Gli Usa hanno triplicato le missioni aeree, dato luce verde alla Cia per raid anche in Afghanistan, aumentato le truppe in loco e, infine, messo a capo della diplomazia Mike Pompeo, già direttore della Cia e uno dei fautori della politica del bastone. Che però non ha dato i frutti sperati. Anziché cedere, i talebani hanno aperto una nuova stagione stragista mentre il governo di Kabul, troppo dipendente dai soldi e dalle decisioni americane, non ha la credibilità per poter condurre una trattativa con la guerriglia.

Al momento, l’unica speranza sembra quella di una guerra di logoramento progressivo che potrebbe indurre tutti a più miti consigli. A cominciare dagli eserciti occupanti. Stati Uniti in testa, ovviamente, ma anche Nato, Italia in primis. Il Paese col maggior numero di soldati dopo quelli americani che su questo dossier non ha una posizione.

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