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venerdì 9 marzo 2018

Dietro le violenze a Sri Lanka

Il governo dello Sri Lanka ha ordinato nuovamente ieri dalle sei di sera il coprifuoco nell’intero distretto di Kandy, nello Sri Lanka centrale. La misura, già presa dopo un week end di violenze ai danni della comunità musulmana, era stata rinforzata con lo stato di emergenza e l’invio di soldati, ma un’ennesima ondata di violenza ha preso di mira mercoledi alcuni villaggi nei sobborghi di Kandy – la capitale di distretto - mettendo a ferro e fuoco alcune zone della periferia di Akurana, ampio sobborgo che dista da Kandy una decina di chilometri. L’intero distretto e la stessa città di Kandy - che conserva un dente del Budda e che è meta di turisti e commercianti di tè la cui produzione l’ha resa famosa nel mondo - sono nell’occhio del ciclone. Il bilancio dell’ennesima giornata di violenze ha portato a oltre ottanta arresti mentre non è ancora chiaro il bilancio di vittime e feriti. Sono stati incendiati negozi e bruciate case di musulmani mentre sono stati colpiti, seppur sommariamente, alcuni templi buddisti. Tutto comincia a fine febbraio quando, dopo un incidente stradale, un autista singalese viene bastonato da un gruppo di musulmani. Sabato 3 marzo muore. I responsabili vengono arrestati e così alcuni singalesi che cominciano a vendicarsi. Ma il loro arresto viene contestato e da lì sarebbero scattate le violenze del week end scorso.

L'inviato Onu Feltmn
L’episodio ricorda da vicino quanto accadde nelle isole Molucche dell’Indonesia nel 1999: un banale incidente dette la stura a un conflitto settario tra musulmani e cristiani che durò dal 1999 al 2002. Ma quel fatto banale nascondeva una strategia del caos che mise in crisi la neonata democrazia indonesiana che si era appena liberata della dittatura di Suharto. Dietro agli scontri, più che l’odio tra comunità delle Molucche, c’era la pianificazione di una crisi che doveva colpire Giacarta.



A Sri Lanka potremmo essere davanti a qualcosa di molto simile: prima di tutto la polizia e i militari inviati a presidiare l’aera avrebbero avuto un atteggiamento troppo tollerante: sia nel week end sia mercoledi, quando si scatenava la caccia al musulmano con cortei di centinaia di persone, capeggiate da nazionalisti buddisti, con bastoni e bottiglie incendiarie. Secondo Alan Keenan, un ricercatore dell'International Crisis Group, gli attacchi sono organizzati e ben pianificati. E ci sono buone ragioni – sostiene - per credere che siano in parte progettati per provocare una risposta musulmana, che giustificherebbe poi una controreazione contro i musulmani. Un effetto a catena insomma che potrebbe preludere a un’escalation.

Il governo è in difficoltà: ha mandato soldati che hanno lasciato fare e solo in queste ore sembra
reagire con fermezza, bloccando siti radicali e arrestando sospetti con un filtro a maglia larga. Potrebbe non bastare. Quanto sia grave la situazione lo dice l’arrivo a Colombo del sottosegretario dell’Onu per gli Affari politici, Jeffry Feltman. Visiterà l’area di Kandy ma tanta solerzia da parte del segretariato lascia capire quanto a New York si tema un’escalation che potrebbe portare a disordini diffusi come già avvenuto nel 2014 quando al potere c’era ancora Mahinda Rajapaksa, già premier dal 2004 al 2005 e in seguito presidente sino al 2015, quando il voto popolare lo scalza e un suo tentativo di golpe durante le elezioni viene fermato dagli stessi uomini del suo governo e dagli apparati di sicurezza che gli voltano le spalle.

Ritornare a quel periodo può forse aiutare a ricostruire il quadro degli incidenti di questi giorni. Rajapaksa è un uomo forte: è a lui che si deve la fine della guerra civile con la minoranza tamil del Nord, iniziata negli anni Ottanta e terminata con una strage nel 2009, quando Rajapaksa dà carta bianca all’esercito che circonda una “safe area” e trucida guerriglieri e civili. Autore di un piccolo miracolo economico che si appoggia sull’espansionismo cinese nella “lacrima dell’Oceano indiano”, sostiene un’ideologia nazionalista e identitaria singalese, la maggioranza buddista dell’isola. Aiuta e sostiene movimenti ultranazionalisti capeggiati da monaci radicali, come il Bodu Bala Sena (da cui ufficialmente prenderà le distanze), che sarebbe dietro alle recenti violenze. Quando Maithripala Sirisena diventa presidente al suo posto con un programma di riconciliazione nazionale e l’appoggio di Stati Uniti e India, Rajapaksa non digerisce. Da questo a imputargli una primogenitura negli incidenti ce ne corre. Ma se la vicenda indonesiana insegna qualcosa, la responsabilità del vecchio regime – diretta o indiretta – potrebbe non essere da escludere.
Non molto diversi dai loro confratelli radicali birmani, gli attivisti del Bodu Bala Sena e di altri gruppi identitari hanno goduto dell’appoggio del governo sino all’arrivo di Sirisena. Nel 2017 però rialzano la testa con episodi violenti a macchia di leopardo. Organizzano campagne anti musulmane sui social che godono dell’appoggio di qualche imprenditore che vede di buon occhio l’incendio di negozi targati islam. Il vecchio nemico – sostiene International Crisi Group – identificato coi colonialisti prima e coi tamil poi, ha adesso un profilo musulmano. La parabola dell’odio attecchisce sempre quando si cerca un capro espiatorio ai propri guai. E il governo finisce a tollerare, non per simpatie radicali, ma per non perdere il consenso della comunità singalese, due terzi della popolazione srilankese contro solo il 10% di “mori”.

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