L'inviato Onu Feltmn |
A Sri Lanka potremmo essere davanti a qualcosa di molto simile: prima di tutto la polizia e i militari inviati a presidiare l’aera avrebbero avuto un atteggiamento troppo tollerante: sia nel week end sia mercoledi, quando si scatenava la caccia al musulmano con cortei di centinaia di persone, capeggiate da nazionalisti buddisti, con bastoni e bottiglie incendiarie. Secondo Alan Keenan, un ricercatore dell'International Crisis Group, gli attacchi sono organizzati e ben pianificati. E ci sono buone ragioni – sostiene - per credere che siano in parte progettati per provocare una risposta musulmana, che giustificherebbe poi una controreazione contro i musulmani. Un effetto a catena insomma che potrebbe preludere a un’escalation.
Il governo è in difficoltà: ha mandato soldati che hanno lasciato fare e solo in queste ore sembra
reagire con fermezza, bloccando siti radicali e arrestando sospetti con un filtro a maglia larga. Potrebbe non bastare. Quanto sia grave la situazione lo dice l’arrivo a Colombo del sottosegretario dell’Onu per gli Affari politici, Jeffry Feltman. Visiterà l’area di Kandy ma tanta solerzia da parte del segretariato lascia capire quanto a New York si tema un’escalation che potrebbe portare a disordini diffusi come già avvenuto nel 2014 quando al potere c’era ancora Mahinda Rajapaksa, già premier dal 2004 al 2005 e in seguito presidente sino al 2015, quando il voto popolare lo scalza e un suo tentativo di golpe durante le elezioni viene fermato dagli stessi uomini del suo governo e dagli apparati di sicurezza che gli voltano le spalle.
Ritornare a quel periodo può forse aiutare a ricostruire il quadro degli incidenti di questi giorni. Rajapaksa è un uomo forte: è a lui che si deve la fine della guerra civile con la minoranza tamil del Nord, iniziata negli anni Ottanta e terminata con una strage nel 2009, quando Rajapaksa dà carta bianca all’esercito che circonda una “safe area” e trucida guerriglieri e civili. Autore di un piccolo miracolo economico che si appoggia sull’espansionismo cinese nella “lacrima dell’Oceano indiano”, sostiene un’ideologia nazionalista e identitaria singalese, la maggioranza buddista dell’isola. Aiuta e sostiene movimenti ultranazionalisti capeggiati da monaci radicali, come il Bodu Bala Sena (da cui ufficialmente prenderà le distanze), che sarebbe dietro alle recenti violenze. Quando Maithripala Sirisena diventa presidente al suo posto con un programma di riconciliazione nazionale e l’appoggio di Stati Uniti e India, Rajapaksa non digerisce. Da questo a imputargli una primogenitura negli incidenti ce ne corre. Ma se la vicenda indonesiana insegna qualcosa, la responsabilità del vecchio regime – diretta o indiretta – potrebbe non essere da escludere.
Non molto diversi dai loro confratelli radicali birmani, gli attivisti del Bodu Bala Sena e di altri gruppi identitari hanno goduto dell’appoggio del governo sino all’arrivo di Sirisena. Nel 2017 però rialzano la testa con episodi violenti a macchia di leopardo. Organizzano campagne anti musulmane sui social che godono dell’appoggio di qualche imprenditore che vede di buon occhio l’incendio di negozi targati islam. Il vecchio nemico – sostiene International Crisi Group – identificato coi colonialisti prima e coi tamil poi, ha adesso un profilo musulmano. La parabola dell’odio attecchisce sempre quando si cerca un capro espiatorio ai propri guai. E il governo finisce a tollerare, non per simpatie radicali, ma per non perdere il consenso della comunità singalese, due terzi della popolazione srilankese contro solo il 10% di “mori”.
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