L’Asia è grande e tentare una sintesi della sua risposta al virus quasi impossibile. Si possono però studiare tendenze e persino dei buoni esempi. Se escludiamo il pianeta Cina, si potrebbe tentare una divisone: Paesi alla frontiera con la Rpc, la sua “cintura” geografica meridionale: Cambogia, Laos, Vietnam, Myanmar, vicini ma tra i meno colpiti al mondo. Paesi a grandi numeri, dall’Indonesia alle popolatissime nazioni dell’Asia del Sud con relativamente “pochi casi”. Paesi ricchi, tecnologicamente avanzati ma non sempre socialmente virtuosi (Corea del Sud, Malaysia, Singapore). Infine le aree della guerra più o meno conclamata, dall’Afghanistan agli endemici conflitti birmani.
Il mistero della cintura
Se si guarda una tabella salta all’occhio che in Asia solo cinque Paesi hanno decessi zero. Escludendo Timor Est (24 casi 0 decessi) e Turkmenistan (0 casi 0 decessi), gli altri sono Vietnam, Cambogia e Laos cui si può aggiungere il Myanmar (solo 6 decessi). Sono i Paesi della “cintura” Sud della Cina, alla periferia dell’Impero dunque e i più vicini all’epicentro di Wuhan (anche l’Asia
centrale a Ovest è poco colpita ma è distante dall’epicentro). Circa 200 milioni di abitanti in quattro nazioni che ospitano comunità cinesi e dove c’è un vasto via vai di lavoratori cinesi e non da e per la Cina. Innanzi tutto han chiuso subito le frontiere con la Rpc: scelta commercialmente dura ma intelligente. Poi hanno isolato interi villaggi al primo caso (il Vietnam già da in febbraio) e allestito quarantene in luoghi come i monasteri (Myanmar) sapendo di avere strutture cliniche molto fragili. I positivi vengono subito isolati in ospedale, identificati e resi noti (senza il nome) per età, sesso e residenza. Si sa così dove non andare e chi è del posto identifica il malato e deve autodenunciarsi. Sostenere che sono regimi autoritari o dittature mascherate (Phnom Penh è l’unica capitale che desta qualche sospetto sui numeri) è riduttivo. Sembra semmai aver funzionato una logica culturale di autodisciplina di villaggio dove la salute resta un bene collettivo da preservare. In Myanmar in ogni quartiere è stato allestito un posto di blocco “civile” dove lavarsi le mani. Se non hai la mascherina ti fanno un cenno col capo. Disciplina e autodisciplina oltre alla pregressa esperienza della Sars. Più consigli e aiuti dalla Cina, interessata a non guastare i rapporti coi primi vicini della Via della Seta. “Nel caso del Vietnam – spiega Pietro Masina, dell’Orientale di Napoli – è interessante il dibattito che si è svolto nel Vietnam Studies Group, gruppo di accademici e ricercatori, che - a parte qualche polemica sulla natura autoritaria del regime - ha sostanzialmente confermato il fatto che il Paese non ha nascosto i dati. Ne abbiamo avuto esperienza diretta seguendo una ricercatrice tornata in Vietnam da Londra ammalata. Del resto, con 100 casi attivi, il Vietnam aveva messo in quarantena fino a 90mila persone”.
Un lockdown da 17mila isole
La gestione del virus in Indonesia è stata invece ondivaga, con regole incerte e litigi tra governo centrale e province e col governatore della capitale. Un’inchiesta della Reuters in aprile sosteneva che i morti fossero almeno due volte tanto i dichiarati. “Il virus è stato preso alla leggera – dice lo scrittore Goenawan Mohamad (nella foto) – ma dopo un inizio goffo, il presidente Jokowi ha preso il comando e attualmente ci sono piani per affrontare il problema.
Ma ci sono anche 250 milioni di persone sparse su 17mila isole: è un Paese decentralizzato, con governi locali eletti dal popolo e una burocrazia inaffidabile. Il lockdown alla fine è poroso e lo Stato non è finanziariamente abbastanza forte da sostenere i danni all'economia così che le persone stanno diventando irrequiete. Finora, il governo ha evitato metodi draconiani anche per via di un passato militare e autoritario, ma non credo che riceveremo buone notizie in futuro. Nemmeno credo però che l'Indonesia si stia avvicinando al Brasile”. Faisol Reza, parlamentare ed ex attivista che fu sequestrato dall’esercito nei giorni della caduta della dittatura di Suharto (1998) difende Jokowi: “Ha tre problemi: la capacità finanziaria del governo, la mancanza di fiducia dei funzionari e gli ostacoli legali. Jokowi è fiducioso su come si può affrontare il virus, ma lo è meno sull’economia. Ha diviso l’onere del governo centrale coi governi provinciali e regionali e attuato il distanziamento su larga scala ma con la possibilità di tornare ai villaggi dalle rispettive famiglie. C’è un problema con funzionari e ministri che non osano prendere decisioni a causa di esperienze passate con strascichi legali e hanno chiesto garanzie per prendere provvedimenti senza rischi. Gli ostacoli legali? La legge sull'autonomia regionale che limita l’azione del governo centrale, una legge che Jokowi vuole modificare”. Ma questo è vero allora anche per l’India o il Pakistan, con grandi numeri e difficoltà tra potere centrale e decentrato?
Molta gente molto virus?
Goenawan sostiene di no: “Rispetto all'India, dove migliaia di lavoratori migranti hanno dovuto subire il blocco, gli indonesiani sono in condizioni migliori. Non ci son state famiglie sbattute sotto i ponti o negli scantinati. Il sostegno sociale e la distribuzione di cibo per i nuovi disoccupati hanno dato sinora risultati relativamente buoni”. In India, com’è noto, il virus ha invece scatenato l’islamofobia oltre a far pagare un caro prezzo ai migranti interni. Ma i numeri? Rispetto agli abitanti, tutti i grandi Paesi dell’Asia del Sud – così come l’Indonesia - registrano pochi casi e pochi decessi in realtà sovrappopolate: l’India con quasi un miliardo e mezzo di abitanti, il Pakistan con oltre 200 milioni, il Bangladesh con 160. Sono stati accusati di nascondere i dati. Vediamolo in Bangladesh: “La mia ipotesi – dice lapidariamente David Lewis, docente della London School autore tra l’altro di Bangladesh: Politics, Economy and Civil Society - è che i numeri in Bangladesh siano drammaticamente sottovalutati a causa del sistema sanitario debole e di pochissimi test”, una tesi condivisa dal suo collega bangladese Abul Hossain della Green University di Dacca: “I pochi test ci mettano in una situazione buia e pensiamo che i dati diffusi sui decessi siano la metà di quelli reali perché un gran numero di persone morte per il virus non vengono conteggiato dalle statistiche. Infine riteniamo che ci sia un numero enorme di asintomatici in un Paese dove, l'anno scorso, il budget sanitario era solo lo 0,9% del Pil”. Una frontiera pericolosa. Come in India o in Pakistan.
Ricchi, democratici, tecnologici e spietati
Nei Paesi ricchi (Tokio è appena uscita dall’emergenza) spiccano i casi di Corea, Malaysia e Singapore, nonostante siano avanguardie tecnologiche con la patente di democrazie, un benessere diffuso e buoni ospedali. Si sono distinti per dei vistosi buchi neri sociali. Quando Seul ha visto una ripresa del contagio iniziato a maggio con un focolaio nei club Lgbtq, si è diffusa una reazione razzista nei confronti del diverso, identificato come untore per le sue pratiche sessuali fuori norma. Singapore e Malaysia hanno fatto altrettanto, se non peggio, coi migranti. La città-stato li ha rinchiusi in grandi dormitori dove sono scoppiati focolai di Covid-19. La Malaysia ha messo molti migranti in prigione e perseguito i giornalisti che hanno raccontato la svolta autoritaria contro i più deboli: una forza lavoro immigrata cui Kuala Lumpur, come Singapore, non può rinunciare ma che ha cercato di nascondere sotto il tappeto.
Virus e conflitti
Se il Covid-19 abbia aiutato il governo di Kabul a fare un accordo interno dopo mesi di stallo e contestazioni del risultato elettorale e se la tregua ora stipulata tra l’esecutivo di Ghani e i Talebani sia solo merito del virus resta da dimostrare. Certo sembra aver aiutato i vari protagonisti a un po’ di sano pragmatismo: a nessuno piace, già in crisi di consenso, perderne altro per colpa di una malattia. Ma la richiesta di tregua dell’Onu a marzo, riecheggiata dal Papa, non ha funzionato: né in India, né in Thailandia. Solo in parte nelle Filippine e nel Myanmar dove però il cessate il fuoco, decretato a Yangoon il 10 maggio, ha escluso le aree… dove si combatte. Non sarebbe sbagliato dire che il Covid ha spinto l’Asia verso una svolta autoritaria. Sperando che non diventi virale.
Questo articolo è uscito ieri su ilmanifesto
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