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venerdì 19 giugno 2020

Asia orientale: misteri e nodi del Covid-19

L’Asia è grande e tentare una sintesi della sua risposta al virus quasi impossibile. Si possono però studiare tendenze e persino dei buoni esempi. Se escludiamo il pianeta Cina, si potrebbe tentare una divisone: Paesi alla frontiera con la Rpc, la sua “cintura” geografica meridionale: Cambogia, Laos, Vietnam, Myanmar, vicini ma tra i meno colpiti al mondo. Paesi a grandi numeri, dall’Indonesia alle popolatissime nazioni dell’Asia del Sud con relativamente “pochi casi”. Paesi ricchi, tecnologicamente avanzati ma non sempre socialmente virtuosi (Corea del Sud, Malaysia, Singapore). Infine le aree della guerra più o meno conclamata, dall’Afghanistan agli endemici conflitti birmani.

Il mistero della cintura

Se si guarda una tabella salta all’occhio che in Asia solo cinque Paesi hanno decessi zero. Escludendo Timor Est (24 casi 0 decessi) e Turkmenistan (0 casi 0 decessi), gli altri sono Vietnam, Cambogia e Laos cui si può aggiungere il Myanmar (solo 6 decessi). Sono i Paesi della “cintura” Sud della Cina, alla periferia dell’Impero dunque e i più vicini all’epicentro di Wuhan (anche l’Asia
centrale a Ovest è poco colpita ma è distante dall’epicentro). Circa 200 milioni di abitanti in quattro nazioni che ospitano comunità cinesi e dove c’è un vasto via vai di lavoratori cinesi e non da e per la Cina. Innanzi tutto han chiuso subito le frontiere con la Rpc: scelta commercialmente dura ma intelligente. Poi hanno isolato interi villaggi al primo caso (il Vietnam già da in febbraio) e allestito quarantene in luoghi come i monasteri (Myanmar) sapendo di avere strutture cliniche molto fragili. I positivi vengono subito isolati in ospedale, identificati e resi noti (senza il nome) per età, sesso e residenza. Si sa così dove non andare e chi è del posto identifica il malato e deve autodenunciarsi. Sostenere che sono regimi autoritari o dittature mascherate (Phnom Penh è l’unica capitale che desta qualche sospetto sui numeri) è riduttivo. Sembra semmai aver funzionato una logica culturale di autodisciplina di villaggio dove la salute resta un bene collettivo da preservare. In Myanmar in ogni quartiere è stato allestito un posto di blocco “civile” dove lavarsi le mani. Se non hai la mascherina ti fanno un cenno col capo. Disciplina e autodisciplina oltre alla pregressa esperienza della Sars. Più consigli e aiuti dalla Cina, interessata a non guastare i rapporti coi primi vicini della Via della Seta. “Nel caso del Vietnam – spiega Pietro Masina, dell’Orientale di Napoli – è interessante il dibattito che si è svolto nel Vietnam Studies Group, gruppo di accademici e ricercatori, che - a parte qualche polemica sulla natura autoritaria del regime - ha sostanzialmente confermato il fatto che il Paese non ha nascosto i dati. Ne abbiamo avuto esperienza diretta seguendo una ricercatrice tornata in Vietnam da Londra ammalata. Del resto, con 100 casi attivi, il Vietnam aveva messo in quarantena fino a 90mila persone”.

Un lockdown da 17mila isole

La gestione del virus in Indonesia è stata invece ondivaga, con regole incerte e litigi tra governo centrale e province e col governatore della capitale. Un’inchiesta della Reuters in aprile sosteneva che i morti fossero almeno due volte tanto i dichiarati. “Il virus è stato preso alla leggera – dice lo scrittore Goenawan Mohamad (nella foto) – ma dopo un inizio goffo, il presidente Jokowi ha preso il comando e attualmente ci sono piani per affrontare il problema.
Ma ci sono anche 250 milioni di persone sparse su 17mila isole: è un Paese decentralizzato, con governi locali eletti dal popolo e una burocrazia inaffidabile. Il lockdown alla fine è poroso e lo Stato non è finanziariamente abbastanza forte da sostenere i danni all'economia così che le persone stanno diventando irrequiete. Finora, il governo ha evitato metodi draconiani anche per via di un passato militare e autoritario, ma non credo che riceveremo buone notizie in futuro. Nemmeno credo però che l'Indonesia si stia avvicinando al Brasile”. Faisol Reza, parlamentare ed ex attivista che fu sequestrato dall’esercito nei giorni della caduta della dittatura di Suharto (1998) difende Jokowi: “Ha tre problemi: la capacità finanziaria del governo, la mancanza di fiducia dei funzionari e gli ostacoli legali. Jokowi è fiducioso su come si può affrontare il virus, ma lo è meno sull’economia. Ha diviso l’onere del governo centrale coi governi provinciali e regionali e attuato il distanziamento su larga scala ma con la possibilità di tornare ai villaggi dalle rispettive famiglie. C’è un problema con funzionari e ministri che non osano prendere decisioni a causa di esperienze passate con strascichi legali e hanno chiesto garanzie per prendere provvedimenti senza rischi. Gli ostacoli legali? La legge sull'autonomia regionale che limita l’azione del governo centrale, una legge che Jokowi vuole modificare”. Ma questo è vero allora anche per l’India o il Pakistan, con grandi numeri e difficoltà tra potere centrale e decentrato?

Molta gente molto virus?

Goenawan sostiene di no: “Rispetto all'India, dove migliaia di lavoratori migranti hanno dovuto subire il blocco, gli indonesiani sono in condizioni migliori. Non ci son state famiglie sbattute sotto i ponti o negli scantinati. Il sostegno sociale e la distribuzione di cibo per i nuovi disoccupati hanno dato sinora risultati relativamente buoni”. In India, com’è noto, il virus ha invece scatenato l’islamofobia oltre a far pagare un caro prezzo ai migranti interni. Ma i numeri? Rispetto agli abitanti, tutti i grandi Paesi dell’Asia del Sud – così come l’Indonesia - registrano pochi casi e pochi decessi in realtà sovrappopolate: l’India con quasi un miliardo e mezzo di abitanti, il Pakistan con oltre 200 milioni, il Bangladesh con 160. Sono stati accusati di nascondere i dati. Vediamolo in Bangladesh: “La mia ipotesi – dice lapidariamente David Lewis, docente della London School autore tra l’altro di Bangladesh: Politics, Economy and Civil Society - è che i numeri in Bangladesh siano drammaticamente sottovalutati a causa del sistema sanitario debole e di pochissimi test”, una tesi condivisa dal suo collega bangladese Abul Hossain della Green University di Dacca: “I pochi test ci mettano in una situazione buia e pensiamo che i dati diffusi sui decessi siano la metà di quelli reali perché un gran numero di persone morte per il virus non vengono conteggiato dalle statistiche. Infine riteniamo che ci sia un numero enorme di asintomatici in un Paese dove, l'anno scorso, il budget sanitario era solo lo 0,9% del Pil”. Una frontiera pericolosa. Come in India o in Pakistan.

Ricchi, democratici, tecnologici e spietati

Nei Paesi ricchi (Tokio è appena uscita dall’emergenza) spiccano i casi di Corea, Malaysia e Singapore, nonostante siano avanguardie tecnologiche con la patente di democrazie, un benessere diffuso e buoni ospedali. Si sono distinti per dei vistosi buchi neri sociali. Quando Seul ha visto una ripresa del contagio iniziato a maggio con un focolaio nei club Lgbtq, si è diffusa una reazione razzista nei confronti del diverso, identificato come untore per le sue pratiche sessuali fuori norma. Singapore e Malaysia hanno fatto altrettanto, se non peggio, coi migranti. La città-stato li ha rinchiusi in grandi dormitori dove sono scoppiati focolai di Covid-19. La Malaysia ha messo molti migranti in prigione e perseguito i giornalisti che hanno raccontato la svolta autoritaria contro i più deboli: una forza lavoro immigrata cui Kuala Lumpur, come Singapore, non può rinunciare ma che ha cercato di nascondere sotto il tappeto.

Virus e conflitti

Se il Covid-19 abbia aiutato il governo di Kabul a fare un accordo interno dopo mesi di stallo e contestazioni del risultato elettorale e se la tregua ora stipulata tra l’esecutivo di Ghani e i Talebani sia solo merito del virus resta da dimostrare. Certo sembra aver aiutato i vari protagonisti a un po’ di sano pragmatismo: a nessuno piace, già in crisi di consenso, perderne altro per colpa di una malattia. Ma la richiesta di tregua dell’Onu a marzo, riecheggiata dal Papa, non ha funzionato: né in India, né in Thailandia. Solo in parte nelle Filippine e nel Myanmar dove però il cessate il fuoco, decretato a Yangoon il 10 maggio, ha escluso le aree… dove si combatte. Non sarebbe sbagliato dire che il Covid ha spinto l’Asia verso una svolta autoritaria. Sperando che non diventi virale.

Questo articolo è uscito ieri su ilmanifesto

domenica 10 maggio 2020

Pakistan Covid-19: confusi alla meta

Da sabato anche il Pakistan ha allentato il lockdown. Protestano Province e moschee

Alla vigilia delle misure di allentamento del lockdown attive da ieri, il Pakistan aveva già registrato giovedi la sua giornata peggiore con 26 morti in Punjab, sei nel Khyber Pakhtunkhwa e 14 nel Sindh proprio mentre il governo prendeva la decisione finale sul termine della fase 1. Venerdi non è andata meglio con l'aggiunta di 2mila nuovi infetti in 24 ore e sabato il Pakistan si è svegliato con un nuovo aumento dei casi – oltre 25mila - e dei decessi. Sebbene in termini relativi i numeri siano ancora bassi se paragonati ad altri Paesi (i morti sono poco più di 600), restano preoccupanti in un Paese ad elevata densità demografica con strutture sanitarie fragili e un alto tasso di povertà sia nelle aree urbane sia in quelle rurali. Il rischio, su cui molti esperti mettono in guardia, riguarda sia la scarsa capacità di test, che forse nasconde una realtà di contagi peggiore, sia una possibile nuova ondata di infezioni.

La scelta di allentare il lockdown da questo sabato è stata segnata da polemiche che non riguardano soltanto il fatto che il Pakistan sia l’unico Paese islamico del mondo dove di fatto le moschee restano aperte - unicità che ha attirato i riflettori della cronaca – e dove spesso si ignorano le più elementari regole di distanziamento fisico o addirittura vige l’assenza di disinfettanti e mascherine. I dissidi tra province e governo federale hanno creato un clima di confusione che lascia ampi spazi di manovra sia ai singoli ministri provinciali sia alle persone che non hanno indicazioni troppo chiare su cosa e come fare. Le province di Punjab e Sindh, per esempio, hanno chiarito che estenderanno ancora le restrizioni e la querelle sulla riapertura delle ferrovie ha visto un braccio di ferro tra Islamabad e le capitali provinciali alla fine risoltosi in loro favore.

Stretto tra la necessità di salvaguardare vite umane e la pressione dell’industria, il premier Imran Khan sembra aver ceduto (non è certo l'unico caso) alla seconda, anche perché molta economia è nelle mani dell’esercito che cumula così due poteri. Ma Khan doveva anche tener conto sia dei potentati provinciali sia delle moschee, sorta queste ultime di potere autonomo con la forza della piazza oltreché della scomunica. Risultato: scarsa chiarezza e programmi confusi. Del resto, il coordinatore nazionale responsabile del virus per il governo – citato su The Dawn da Sakib Sheraniha, ex consigliere economico di Khan – è un buon esempio: confrontando l'attuale tasso di mortalità tra Covid-19 e i decessi per incidenti stradali, è giunto alla conclusione che, poiché questi ultimi uccidono ma il traffico stradale non è vietato, la stessa logica dovrebbe applicarsi al virus. “Il difetto nel ragionamento? A differenza di Covid-19 – commenta Sheraniha - gli incidenti stradali non sono contagiosi… una matematica confusa”.

Quanto alle moschee, il governo aveva siglato un accordo in venti punti che è stato clamorosamente violato. Nel solo distretto di Rawalpindi, 450 tra mosche e imambargh (luoghi di raccolta degli sciiti) non avrebbero applicato completamente le linee guida. E un rapporto interno della provincia di Khyber Pakhtunkhwa ha dato conto di decine di incontri religiosi con assembramenti di 200 o 500 persone, spalla a spalla in preghiera. Già in marzo del resto, oltre 2600 casi erano stati imputati a un singolo raduno dell'organizzazione missionaria Tablighi Jamaat, già nell’occhio del ciclone in Malaysia, India e Indonesia per i suoi raduni di massa in epoca di Covid-19. Infine nelle ultime ore si sono aggiunti gruppi sciiti che hanno comunicato che non rinunceranno alle processioni per il martirio di Ali.

giovedì 9 aprile 2020

Ho un virus nel mio vestito

In Myanmar quattro fabbriche si stanno rapidamente riconvertendo nella produzione di mascherine. Inutile dire che alcune sono della filiera del tessile, una delle industrie chiave nel Paese. E’ uno dei nuovi affari connessi al coronavirus. Affari sacrosanti (se i prezzi delle mascherine non lievitassero come la pasta del pane) ma che hanno puntato i riflettori sugli effetti che il virus ha su uno dei grandi settori dell’economia globale – il tessile/calzaturiero - che ha in Asia, dal Bangladesh al Vietnam, da Sri Lanka all’India la fucina dove le grandi firme fabbricano a prezzi super convenienti camice e scarpe, pret a porter e magliette della salute. In certi casi l’apparente disastro (la mancanza di materia prima, il crollo della domanda, i divieti sulla logistica) si trasforma persino in manna dal cielo. Molte aziende in Myanmar hanno approfittato della crisi per chiudere temporaneamente e licenziare sollevando scioperi e proteste in sordina a causa del virus. Ma altre han pensato bene di fallire per riaprire sotto altra forma. In questo modo, denunciano i sindacalisti locali, si licenza senza problemi e si riapre usufruendo dei vantaggi per le start-up. Cosa c’è di meglio di una crisi per ristrutturare il profitto?

L’ondata peggiore della crisi passa dunque soprattutto nei Paesi dove si produce su commissione. Dove la relazione tra aziende e sindacato è fragile e dove le garanzie per chi perde il lavoro sono minime o non ci sono. Due rapporti usciti in marzo han cercato di fare il punto:. Abandoned? del Center for Global Workers’ Rights e Who will bail out the Workers that make our clothes? del Worker Rights Consortium. Mettono in luce gli effetti del Covid-19 sulle catene di fornitura. Lontane da casa.


Marchi e distributori scaricano infatti le conseguenze del calo della domanda sui fornitori. “Le imprese di abbigliamento pagano solo alla consegna, con le fabbriche che sostengono i costi generali e di manodopera. E hanno il potere di decidere di non pagare gli ordini, anche se ciò significa di fatto una violazione contrattuale” spiegano alla Campagna abiti Puliti, sezione italiana della Clean Clothes Campaign. Al di là dei furbi e di chi si approfitta della situazione, ciò significa che i proprietari delle fabbriche esecutrici non hanno più liquidità per pagare i salari e che in futuro il quadro potrà solo peggiorare. Secondo l’associazione dei produttori del tessile (Bgmea) del Bangladesh, ordini per oltre tre miliardi di dollari sono finora stati cancellati. In Thailandia, le fabbriche di abbigliamento continuano invece a funzionare ma gli ordini stanno rallentando. Si teme – preoccupazione diffusa - che alcune fabbriche possano utilizzare il Covid-19 come scusa per chiudere. E con lo stato di emergenza scioperare è impossibile.

Le due ricerche ricordano infine che in buona parte dei Paesi produttori di abbigliamento, i meccanismi di protezione sociale, come l'assicurazione sanitaria o l'indennità di disoccupazione, non esistono o sono insufficienti. Lo stesso vale per i fondi di garanzia in caso di insolvenza. Non di meno, dicono ad Abiti Puliti, i due dossier sembrano aver sortito un effetto: dopo la loro pubblicazione un certo numero di marchi ha accettato di adempiere ai propri obblighi contrattuali e di  pagare gli ordini che le fabbriche avevano già in produzione: H&M, PVH Corp (che possiede Van Heusen, Tommy Hilfiger, Calvin Klein e altre), Inditex (proprietario di Zara) e Target. Stiamo parlando di un settore – tra tessile, abbigliamento e calzature - che impiega milioni di persone, l’80% donne secondo l’Ufficio internazionale del lavoro: si va dagli oltre 100 milioni dell’India ai 3,6 del Bangladesh dove il tessile è l’industria trainante dell’export. Per saperne di più c’è un blog  che aggiorna quotidianamente sugli effetti globali del virus nella filiera del tessile/calzature.



Questo articolo è uscito ieri su ilmanifesto in edicola