La guerra in Afghanistan gli equilibri regionali e il congelamento del processo di pace: protagonisti e comprimari. Movimenti jihadisti e l'ombra di Daesh. Repressione e confusione*

Gli attori internazionali – Pakistan e Iran prima di tutto, ma anche Stati uniti, India, Cina e Paesi della Nato, non sembrano avere per ora né una posizione univoca né forse una vera e propria posizione. La Nato e gli americani sono indecisi sulla qualità e quantità dell'impegno futuro e non sembrano aver deciso con esattezza se appoggiare con forza l'ipotesi pachistana (quella cioè di un negoziato interafgano purché in qualche modo si tenga sotto l'egida di Islamabad) o ritentare un'ipotesi di colloqui diretti con la guerriglia, bypassando – come già in passato – gli emissari di Kabul. Teheran è forse meno preoccupata, dopo gli accordi di Vienna, del suo fronte orientale, impegnata com'è a guerreggiare sul fronte occidentale e a difendersi da una politica aggressiva dei sauditi che in Afghanistan però non sembra passare dai talebani ma semmai da Daesh e che per ora si è limitata solo ad alcune esecuzioni eclatanti1. Quanto a Islamabad, i suoi sforzi per avviare il negoziato sono in stallo totale (una prima riunione si è tenuta nell'estate in Pakistan ma poi il processo si è fermato). Dopo le bombe seguite al primo round negoziale2 anche la faticosa costruzione di una fiducia bilaterale con Kabul – messa in opera con l'appoggio di Ghani - è completamente crollata dopo l'ondata di stragi estive e l'Afghanistan è per ora completamente schierato contro il Pakistan, un'opzione alimentata soprattutto dal capo dell'esecutivo Abdullah e dai circoli vicini all'ex presidente Karzai. Gli unici Paesi in cui si nota una certa vitalità diplomatico militare sono a Nord di Kabul, lungo il confine con l'ex Urss dove proprio in questi giorni – avverte un reportage dell'emittente afgana Tolo3 - i russi stanno rafforzando il loro sistema di sorveglianza sui suoi ex confini meridionali e avrebbero sostenuto i tajiki nella decisione di chiudere i passaggi transfrontalieri con l'Afghanistan. In fin dei conti la Russia non ha mai perso la speranza di tornare ad avere un controllo seppur indiretto su questo crocevia interasiatico, sul traffico di droga e sui travasi jihadisti che da lì provengono, con un controllo dunque sulle frontiere delle tre ex repubbliche sovietiche (Tagikistan, Uzbekistan, Turkmenistan) che confinano con l'Afghanistan e che non sono meno preoccupate di Mosca dalla continua ebollizione di un Paese che, col Pakistan, ospita cellule terroristiche e combattenti che provengono dai loro territori e a cui i due Paesi garantiscono, oltre confine, santuari e protezione nonché la possibilità di organizzarsi per progettare azioni di disturbo nelle patrie di origine. Putin si è mosso con prudenza in questi anni ma si è mosso. Probabilmente resta preoccupato dalla permanenza dei soldati americani e della Nato (che a fine anno avrebbero dovuto sensibilmente diminuire e che invece resteranno) e la vicenda di Kunduz (dista 250 km da Dushambe e 200 dalla frontiera uzbeka) non ha che rafforzato le preoccupazioni e fornito il destro per offrire collaborazione alle ex repubbliche sorelle.