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mercoledì 3 dicembre 2008

LA DIPLOMAZIA PROVA A RAFFREDDARE I TONI



Dopo la guerra della parole i rapporti tra islamabad e Delhi si fanno meno tesi. E anche Washington frena. Anche se qualche falco si affaccia sulla stampa con consigli battaglieri


Acqua sul fuoco. Sembra questa la linea che da Islamabad a Delhi, passando per Washington che segue il caso con molta attenzione e cautela, sta cercando di riportare a più miti consigli l'escalation della “guerra delle parole”, innescatasi dopo i fatti di Mumbai e che l'altro ieri aveva toccato il suo punto più teso. Ma c'è anche chi scalpita, specie negli Stati Uniti, chiedendo soluzioni radicali o almeno un po' oltre le cautele della diplomazia americana, ancora nelle mani di Condoleezza Rice, in viaggio verso Nuova Delhi.
Ieri il Pakistan ha proposto all'India un'inchiesta congiunta sui fatti di Mumbai e, più in generale, un meccanismo congiunto per l'anti terrorismo. E Islamabad ha anche deciso di rispondere alla richiesta indiana di consegnare alla autorità dell'Unione una ventina di sospetti terroristi, come da richiesta ufficiale giunta il giorno precedente. Solo con qualche distinguo, affidato al premier pachistano Yousuf Raza Gilani che, in un'intervista alla Cnn, ha chiesto all'India di fornire le prove dell'implicazione del Pakistan negli attacchi terroristici di Mumbai e ha comunque promesso di cooperare nel caso siano fornite le prove. Quanto a Delhi il ministro degli esteri Pranab Mukherjee ha smentito l'ipotesi che l'India possa intraprendere alcuna azione militare contro il Pakistan a seguito degli attentati di Mumbai (anche se ha poi in parte rettificato con un'altra dichiarazione che fa parte del refrain di questi giorni che alterna toni morbidi e minacce).
Segnali positivi dunque sui due fronti ma continue – e legittime – precisazioni dei vertici pachistani che chiedono di non confondere il Pakistan con soggetti “non statali”. Un'affermazione che Robert Kagan, il falco neocon che è intervenuto ieri sul Washington Post, prende per buone ma che non gli vietano di ricordare che gli attori non statali agiscono in Pakistan con l'aiuto di esercito e servizi, entrambi attori di stato. Kagan lancia la palla interventista sostenendo che l'India e la comunità internazionale, leggi gli Stati Uniti, avrebbero il diritto di definire una “parte del Pakistan” territorio “ingovernabile” e agire dunque di conseguenza, anche violando la sovranità del paese. Un articolo che non piacerà a Islamabad e destinato a rinfocolare il clima di sospetto e pregiudizio antiamericano degli ambienti radicali e non solo. Anche perché, se Kagan è un interventista in probabile disgrazia con la nuova Amministrazione Obama, il Post aggiunge un editoriale che ricorda al Pakistan, e a Washington, che il bando alla Lashkar-e Toiba voluto dall'ex presidente Musharraf esiste soprattutto “sulla carta” e che proprio Musharraf liberò i suoi adepti e tollerò che il gruppo si tramutasse nella Jamaat-ud-Dawa, una copertura da associazione caritatevole che forse, scrive, gli ha permesso di essere ancor meglio finanziata. Dunque, conclude il Post, il “Pakistan è la chiave della crisi attuale” e deve dimostrare con forza di voler davvero chiudere la partita smettendo di strizzare l'occhio ai terroristi.
Se non bastasse su AsiaTimes, l'autorevole rivista telematica asiatica, lo storico americano Kenneth J. Dillon ha fatto una “modesta proposta”, come titola l'articolo, sostenendo che non sarebbe una cattiva idea permettere all'India, in accordo con Kabul, di spostare 20mila uomini sulla frontiera calda Afghanistan-Pakistan per contrastare il terrorismo...
Intanto fonti di stampa turche accreditano per venerdi a Istanbul un incontro tra il presidente Karzai e Zardari. Ma probabilmente di questo genere di ipotesi non parleranno. Semmai dei negoziati in corso, molto misteriosi, tra emissari di Karzai e talebani per tentare di far uscire l'Afghanistan dalla palude della guerra.

1 commento:

Gilesteta ha detto...

Dall'Afghanistan all'India il Pakistan sembra starci sempre nel mezzo. Come in realtà è.